Nel giorno in cui il panorama politico perde un gigante come Gianfranco Spadaccia, icona delle grandi battaglie radicali degli anni Settanta e Ottanta, il voto ci pone di fronte ad alcuni dati inequivocabili. Il primo è che la destra non ha vinto: ha stravinto. E anche se non ha la maggioranza qualificata dei due terzi per riformare la Costituzione senza passare dal voto degli elettori, ce l’ha comunque per governare senza affanni, per eleggere i giudici costituzionali che più le aggradano e per eleggere, eventualmente, il successore di Mattarella in piena autonomia.
Certo, la Lega di Salvini ottiene un risultato che non le consente di cantar vittoria: dimezza i voti rispetto al 2018, scende, a quanto pare, sotto il 10 per cento e, di fatto, perde l’egemonia che un tempo esercitava sulle regioni del Nord, il che potrebbe far pensare a un cambio di leadership in tempi non poi così lunghi. Fatto sta che riesce comunque a portare in Parlamento una discreta rappresentanza e che la prospettiva di andare al potere, senza dubbio, lenisce parecchie ferite. Non solo: Zaia e Fedriga, la cosiddetta “ala draghiana” del Carroccio, al pari di Giancarlo Giorgetti, non possono certo rivendicare grandi risultati, dato che nelle loro regioni il partito è andato malissimo, subendo un cappotto ad opera della Meloni e non riuscendo a imporre un’agenda oggettivamente fragile e fiaccata da un anno e mezzo di permanenza all’interno di un governo innaturale. Diciamo, dunque, che da quelle parti la resa dei conti, per quanto attesa, potrebbe anche essere rinviata e, comunque, attenuata.
Ben diverso è il discorso sul fronte del Partito Democratico. A questo punto si impone una riflessione: siamo al cospetto di una compagine anti-storica. Il PD, infatti, è la quintessenza della Terza via blairiana, dell’Ulivo mondiale e di altri capisaldi degli anni Novanta che hanno progressivamente condotto la sinistra globale nel baratro, senza neanche rendersi conto di essere nato male, fuori tempo massimo, senza una visione del mondo che non fosse la vocazione maggioritaria e altre amenità, con uno statuto privo di senso e, soprattutto, senza un pensiero della crisi.
È sopravvissuto finora per inerzia, per mancanza di alternative, per paura, ma adesso potrebbe essere venuto il momento di dire basta, di porre fine a un accanimento terapeutico che inghiotte chiunque abbia la sventura di esserne segretario. Perché va bene prendersela con Enrico Letta per i suoi errori, primo fra tutti non aver voluto in alcun modo dialogare con Conte, precludendosi la possibilità di conquistare una miriade di collegi uninominali al Sud; va bene rimproverarlo per le sue enormi colpe, compresa l’adesione acritica alla presunta “Agenda Draghi”, mai realmente esistita e, comunque, anch’essa figlia di un’altra stagione verso cui sarebbe sbagliato provare la benché minima nostalgia; va bene tutto, ma sarebbe miope non vedere che persino Bersani fallì in quel ruolo, per il semplice motivo che un partito privo di identità non può funzionare.
Non in un mondo così tormentato, almeno, non in una società devastata dalla crisi economica, non al cospetto di una possibile guerra mondiale, non dopo due anni di pandemia, non di fronte alla miseria di intere fasce della popolazione, che infatti non votano più, non di fronte a una scuola devastata da tagli dissennati, cui solo il governo Conte II, con la ministra Azzolina, ha posto in parte rimedio, non di fronte a un lavoro sempre più precario e povero, non di fronte a una tenuta sociale ormai a rischio, non in questo periodo e in questo Paese.
Un partito così non comprende la rabbia popolare, non rappresenta altro che il proprio zoccolo duro, la militanza storica e le aree centrali delle grandi città, non esiste nelle periferie del disagio, non parla agli ultimi e a tutte e tutti coloro per cui una sinistra dovrebbe esistere e rappresentare un punto di riferimento, non ha mai avuto il coraggio di fare i conti con i propri sbagli e dubitiamo che intenda farlo in futuro.
E allora, più che di un congresso, cominciamo a pensare che questo soggetto abbia bisogno di fare chiarezza. È evidente che ormai chi si sente di sinistra va da Conte, passando sopra agli innumerevoli limiti di quella forza politica, ancora irresoluta per certi aspetti e bisognosa di cambiar pelle perché ormai giunta, a sua volta, a fine corsa. Qualcuno va anche da Fratoianni e dai Verdi, rifugiandosi in una sinistra più tradizionale ma comunque dignitosa, inspiegabilmente maltrattata dal PD per tutta la campagna elettorale.
La destra e chi ancora crede nelle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione senza regole, del meno Stato e del liberismo, infine, va da Renzi e Calenda. Il PD sta lì, al centro, incapace di qualsivoglia manovra politica, di azione, di essere il baricentro di una coalizione credibile, isolato e privo di alleati che possano consentirgli anche solo di entrare in partita e, pertanto, destinato all’eterna sconfitta. Finora ha avuto buon gioco, innalzando il vessillo della stabilità e della responsabilità, non si è ben capito verso chi, ma ora che è stato relegato all’opposizione, le sue contraddizioni sono destinate a esplodere e, forse, a quindici anni dalla fondazione, a porre fine a un esperimento che non è mai riuscito davvero.
Più che un partito, infatti, il PD è ormai una maionese impazzita, un fritto misto di correnti che vanno ciascuna per conto suo, in ordine sparso, fra rancori che in queste ore stanno emergendo in maniera sempre più nitida e veleni che verranno sparsi ancora per mesi, specie se dovessero essere confermati i dati relativi ai collegi uninominali, con un arretramento quasi imbarazzante persino nelle ex roccaforti di Toscana ed Emilia Romagna.
L’auspicio, a questo punto, nell’ottica di un cittadino o di una cittadina di sinistra, è che il M5S completi alla svelta la sua evoluzione in senso progressista, diventando l’asse portante di una nuova coalizione alternativa alla destra e recuperando lo spirito movimentista che ha caratterizzato le migliori stagioni della nostra storia recente: dalla piattaforma politica e valoriale del Social forum di Porto Alegre e di Firenze alla bella esperienza dei sindaci arancioni e della vittoria referendaria del 2011 (acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento).
Non c’è dubbio, in conclusione, che la crisi morda e che la situazione geo-politica, climatica, energetica, imprenditoriale e debitoria dell’Italia sia drammatica. Non c’è dubbio che il governo Draghi, al netto delle fanfare con cui è stato accolto e del sostegno pressoché unanime di cui ha goduto fino all’ultimo da parte della stampa, abbia drammaticamente fallito in molte delle missioni per cui era nato. Non c’è dubbio che la destra si troverà a governare con una maggioranza smisurata ma assai meno granitica di quanto non si pensi, per giunta in un periodo cupo e difficile per chiunque. E non c’è dubbio che l’asse centrista fra Renzi e Calenda avrebbe avuto un domani solo se fosse collassata definitivamente Forza Italia. Non essendo accaduto, è molto probabile che l’ego dei due avrà presto il sopravvento sul desiderio, pure più volte espresso, di dar vita a un’esperienza politica comune.
Se non si capisce che l’emarginazione sociale delle classi subalterne e la crescita esponenziale delle disuguaglianze favoriscono ogni forma di destra possibile e immaginabile, continueremo ad assistere a risultati del genere. Se la sinistra vuole davvero ripartire, non le resta, quindi, che dire la verità: negli ultimi trent’anni, abbiamo sbagliato quasi tutto. E oggi, per citare Bersani, “non ha perso perché si è divisa ma si è divisa perché ha perso”.