Il Pd ha dell’incredibile. Non riesce a cambiare nemmeno quando la grande maggioranza degli elettori gli chiede di farlo; non riesce a mutar pelle nemmeno dopo il trionfo inaspettato di Elly Schlein; non riesce a voltar pagina nemmeno dopo gli ultimi risultati elettorali – locali e nazionali – che hanno sempre indicato un risultato negativo, complice la linea intrapresa dal partito.
Il suo destino sembra quello di essere un partito nazionale per portata e vocazione, ma minoritario e residuale per numero di rappresentati; un partito che si definisce di sinistra e che invece ha quasi nulla che ispiri sentimenti collettivi e popolari.
I dem sono i peggior dinosauri di cui la politica italiana oggi disponga. Nemmeno la destra è così conservatrice. Loro invece sono devoti all’auto-conservazione pur di rimanere aggrappati al briciolo di potere che deriva, in quote e forme diverse, a ciascuno dei rappresentanti.
Il colmo è che se li fermi uno a uno, i dirigenti dem, e chiedi loro se siano soddisfatti del nuovo corso schleiniano, ti rispondo convinti di sì. Con la Schlein si sono rifatti il look, ma sotto-sotto sono gli stessi di sempre. Loro e il partito. Stessa faccia stessa razza.
L’hanno sfruttata, la Schlein, per illudere elettori e iscritti. Ma era chiaro da subito, per la verità, che non sarebbe certo bastata la figura di Elly a dare una pittata fresca ad un partito votato solo dagli anziani e che non ha più nemmeno un’idea.
Servivano anche le sue idee e l’imposizione di esse sul partito. E oggi l’elezione di Schlein, straordinaria proprio per aver coinvolto un elettorato che difficilmente si avvicina alle urne, rischia di essere vana. Perché sebbene sia stata votata da così tanti elettori, abbia riacceso gli animi della sinistra, abbia catalizzato l’attenzione, le sue idee non incarnano ancora del tutto il nuovo Pd.
Prendete i diritti civili, tema con cui Schlein dovrebbe vincere facile: sulla maternità surrogata, ad esempio, ci saremmo aspettati una sfida portata avanti a muso duro contro le destre, e invece no, perché all’interno del suo stesso partito c’è chi la pensa diversamente e la neo-leader non ha avuto il coraggio di osare.
Sui diritti sociali, con la Meloni premier, si è consumata la sconfitta definitiva del Reddito di cittadinanza, unico sostegno concreto ai milioni di poveri italiani: ebbene, da parte di Schlein si è vista una timida risposta anziché una vigorosa battaglia in parlamento a colpi di «dovrete passare sul mio corpo se volete abolirlo».
Infine, dalla politica estera a quella economica, e più segnatamente dalla guerra in Ucraina al Pnrr, Schlein la pensa in un modo ma parla completamente in un altro.
È evidente, ad esempio, che le sue idee sull’invio delle armi e sulla pace di Kiev siano differenti da quanto oggi rappresenti e voglia rappresentare il Pd. Eppure la rivoluzione delle sue idee non si intravede né lei ha avuto il coraggio di farla valere all’interno del partito. Si chiama paura di uscire fuori dal sistema. Con l’aggravante che tutti i deputati continueranno a rispondere ai propri “grandi elettori”, non certo a lei.
Ma così facendo crea la condizione perfetta per quelli che già furono gli Zinga-days: un segretario lacerato da dentro e considerato fuori di senno da tutti gli altri all’esterno.
Sia chiaro: la politica attendista di Schlein, che tiene buoni tutti, dai renziani ancora dentro il Pd ai lettiani, potrà forse regalare un risultato significativo al Pd in vista delle europee tra un anno, ma certo non assicurerà ai dem di diventare un partito di sinistra. E regala, ancora una volta, ai 5s (o a chi starà a sinistra) la strada per intestarsi battaglie collettive e popolari che rispecchiano le volontà di una maggioranza senza appartenenza e fortemente in cerca di rappresentanza.