Ora è davvero finita. Con il discorso di dimissioni del presidente Conte in Senato, è calato ufficialmente il sipario sul peggior governo della storia repubblicana, al termine di una delle crisi di governo più goffe, surreali e dilettantesche a cui abbiamo mai assistito. Il problema non è quello che succederà ora, ma quello che è successo in questi ultimi 14 mesi, 20 giorni e 15 ore, minuto più, minuto meno.
Quello di cui, consapevolmente o meno, siamo stati testimoni è stata la fusione a freddo tra il populismo “cappio e forconi” e il nazionalismo più razzista, sessista e xenofobo d’Europa. Tra il popolo che si è fatto élite e l’élite che si è fatto popolo. Dopo anni di soporifera e quasi rassegnata accettazione di un potere adulto e responsabile, è accaduto che l’odio verso i primi si è mescolato all’odio verso gli ultimi, in una miscela esplosiva che ha prodotto insicurezza (Decreto Sicurezza), morte (Decreto Sicurezza Bis e Legittima difesa), disumanità (i porti chiusi), assistenzialismo (Reddito di cittadinanza), deficit (Bilancio e Quota 100), demagogia spicciola (Vitalizi), abusivismo (il condono di Ischia), ipocrisia (il salva-Salvini), sospetti (Russiagate) e che sarà ricordato come il più grande, pericoloso ed eversivo esperimento di smantellamento della democrazia dall’interno mai concepito.
E, come tutti i castelli populisti, è crollato sulle sue stesse contraddizioni, sull’incapacità di realizzare disegni improbabili e mantenere promesse impossibili.
Eppure, come sempre avviene, quando si avvicinano i titoli di coda e mutano gli scenari politici, la tentazione smaccatamente italica del revisionismo rischia di far perdere le coordinate di una mappa politica dai contorni in realtà chiarissimi. Vuoi per mancanza di memoria, vuoi per calcolo politico, accade che il secondo partito (leggi Pd) riabiliti la prima forza parlamentare e terza forza politica (leggi 5 Stelle) per fare lo sgambetto alla terza forza parlamentare e prima forza politica (leggi Salvini), dimenticando come se nulla fosse oltre un anno di gioiosa connivenza su tutti i temi più importanti di questo terzo scarso di legislatura: dall’immigrazione all’economia, dall’Europa ai temi civili.
L’errore che quasi tutti gli osservatori (e gli stessi elettori) hanno commesso sin qui è aver creduto di individuare una cesura tra 5 Stelle e Lega su idee e programmi, senza rendersi conto che quello che ha unito, e per molti versi tutt’ora unisce, i due azionisti di governo è una certa visione comune di società e di mondo basata sul rifiuto della forma in nome della sostanza, della distruzione sistematica della cultura in favore dell’esperienza, della rinuncia ad ogni forma di complessità e approfondimento, per far spazio alla semplicità e all’immediatezza. E non sarà una mozione sulla Tav a cambiare l’identità genetica comune ai due partiti, destinati, prima o dopo, a reincontrarsi, magari in altre forme e con altri volti, sulle strade infinite dell’antipolitica.
Si rassegnino pragmatici e governisti a tutti i costi. Non esiste un governo giallo buono e uno verde cattivo. Non c’è una good company e una bad company. Il 65esimo governo della Repubblica italiana sarà consegnato ai posteri tutto insieme, come un unico e tragico incidente della storia teorizzato, assemblato, realizzato, sostenuto – e mai rinnegato – da ciascuno dei suoi membri, di ogni schieramento, nessuno escluso, dal primo all’ultimo istante in cui è rimasto in carica.
Il discorso dell’ormai premier uscente Giuseppe Conte, che attacca a testa bassa Salvini e rivendica il “buono” fatto da questo governo (qui il testo integrale), suona come un goffo e tardivo tentativo di affrancarsi dalle responsabilità proprie e del Movimento 5 Stelle, dimenticandosi di dire che tutti i provvedimenti più infami, disumani e incostituzionali lasciati in eredità da questo esecutivo (in primis i due decreti Sicurezza) sono stati approvati con la maggioranza schiacciante di voti grillini, e come tali – almeno per la fredda aritmetica parlamentare – saranno ricordati.
Al di là dell’esercizio di retorica mostrato oggi dal sedicente “avvocato del popolo”, la Storia non dimentica e non concede alcuna riabilitazione “last minute” per chi ha contribuito a sfasciare le fondamenta democratiche, civili, istituzionali, sociali e umanitarie di questo paese. E non è un caso che, ad accendere la miccia della crisi di governo, non siano stati i novelli “responsabili” 5 Stelle, e men che meno un’opposizione ridotta suo malgrado a spettatore non pagante, ma proprio quel Salvini, contro cui oggi tre quarti di Parlamento è pronto a mettersi insieme pur di disarcionarlo. È stato lui a decidere tempi, tempi e toni della crisi, lui – non Conte, non Di Maio, né nessun altro ministro grillino – a staccare la spina al governo gialloverde.
In un paese normale basterebbe questo per escludere ogni presunto ravvedimento dei 5 Stelle e qualsiasi ipotesi di “Grosse Koalition” istituzionale, di responsabilità, di legislatura o in qualunque altro modo vogliate chiamarla.
Ma questo non è più un paese normale da tanto tempo. Oggi ha perso Conte, che ammette il suo fallimento di fronte agli italiani e rimette il proprio mandato al Capo dello Stato. Ha perso Di Maio, che credeva di aprire il Parlamento come una scatola di tonno e ha finito per essere mangiato come un branzino. Ha perso Salvini, che sognava di essere duce e rischia di ritrovarsi come il capitano triste di un gozzo alla deriva, con migliaia di mozzi solerti e il motore in avaria. Hanno perso, prima di tutto, gli italiani, che, dopo 14 mesi di promesse, slogan, propaganda, si riscoprono più poveri, più rabbiosi, più isolati, più insicuri, con i conti pubblici che sanguinano e 23 miliardi di Iva che pendono sopra la loro testa, senza neppure più la consolazione di potersela prendere coi bocconiani, con Renzi, con tutte le ong del mondo, con un barcone di disperati all’orizzonte, con Soros, con l’Europa, con questo o quel potere forte.
Eppure, nonostante tutto, nonostante i danni fatti, i buchi lasciati e tutto il dolore provocato, il prossimo governo rischia di essere persino peggiore di quello appena concluso: più retrogrado, più violento, più intollerante, più lontano e isolato dall’Europa e dalle democrazie occidentali. Il governo Conte ha aperto un solco devastante che altri più esperti e più spietati di loro percorreranno. E, in fondo, è questa l’eredità più drammatica e spaventosa lasciata da questo esecutivo. Perché, come scriveva un tale di Stratford-upon-Avon che di nome faceva William e di cognome Shakespeare, “Finché possiamo dire: ‘Questo è il peggio’, vuol dire che il peggio ancora può venire.” Tocca a noi adesso dimostrare che si sbagliava.
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