Senza giri di parole, come nostra abitudine, va detto che la tornata elettorale ha avuto in Nicola Zingaretti il suo vero vincitore, anche grazie ai tanti “no” che hanno impedito a Luigi Di Maio di trasformare la vittoria annunciata in un plebiscito. Il combinato disposto tra la contenuta vittoria nel referendum e le vacche magre nelle regionali fa sì che il M5S debba necessariamente intraprendere la strada della alleanza strutturale con il PD. Una tesi già illustrata da Beppe Grillo, esplicitata da Marco Travaglio ed abbracciata infine anche dallo stesso Di Maio, che già alla vigilia del weekend elettorale spiegava negli studi di Otto e mezzo come riproporre l’alleanza di governo anche nelle grandi città, a partire dal 2021, fosse la via maestra. E peggio per chi – leggasi Vito Crimi, ma anche Alessandro Di Battista – ha costruito percorsi diversi.
A poco vale il fatto che l’unica vera alleanza già in campo in queste elezioni, quella ligure, sia finita male: per strappare la Regione a Giovanni Toti, Ferruccio Sansa avrebbe avuto bisogno di una specie di miracolo. Oggi addivenire a una strategia comune col PD è una scelta addirittura necessitata dallo spettro dell’irrilevanza, ma metterla in pratica sarà tutt’altro che facile.
Il percorso è partito in salita a Roma, dove la ricandidatura di Virginia Raggi evidentemente crea un problema non da poco al PD, ma è facile prevedere difficoltà anche a Torino (e la condanna di Chiara Appendino di certo non aiuta). Un enorme punto interrogativo è rappresentato da Milano, sempre più enclave progressista in un nord dove al dominio del centrodestra in Lombardia si aggiunge la sempre più forte influenza di Luca Zaia, ormai pronto per uscire dai confini veneti e contendere la leadership a Matteo Salvini, al netto delle smentite di prammatica.
Milano è anche la città dove il fronte del “no” ha ampiamente attecchito nell’elettorato del PD e, non a caso, ha persino conquistato la maggioranza nel Municipio 1, quello del centro storico: da tempo egemonizzato dal centrosinistra, è anche l’unico nelle nove circoscrizioni milanesi ad aver visto il successo del “niet” al taglio dei parlamentari.
Storicamente a Milano il M5S fa una fatica enorme a fare breccia, schiacciato da un centrosinistra che da due mandati governa la città anche perché ha fatto della partecipazione una bandiera, sottraendo ai grillini uno dei suoi cavalli di battaglia. E se sull’argomento Giuliano Pisapia ha investito ben più di Beppe Sala, è proprio quest’ultimo ad aver capito prima degli altri che tra il PD e il M5S andava costruito un ponte, nonostante la freddezza reciproca che regna nei rapporti ufficiali tra i due partiti.
Il confronto tra il sindaco di Milano e Grillo è in corso da tempi non sospetti e su livelli ben più alti rispetto ai diversi motivi di contrasto tra Sala e i due consiglieri che rappresentano il M5S a Palazzo Marino. Proprio a TPI, Patrizia Bedori e Gianluca Corrado hanno anticipato il rifiuto, cortese ma fermo, alla proposta delle sinistre più radicali, che miravano alla costituzione di un patto di opposizione a Sala, almeno al primo turno.
È un punto di partenza, ma per mettere insieme il mosaico di un’alleanza veramente strutturale bisognerà fare un certosino e non scontato lavoro di composizione di numerosi elementi programmatici, da San Siro alle politiche ambientali: il tipico pragmatismo milanese non consente di lasciarle nel limbo e inoltre le problematiche poste dalle forze alla sinistra del PD – fatta la tara su una certa tendenza a dividersi oltre il limite del ragionevole – qualche spunto meritevole di riflessione lo sollecitano eccome.
A maggior ragione, quindi, aumenta l’attesa per il responso di Beppe Sala sulla sua ricandidatura alla guida di Milano. Il rinvio di un mese del processo di appello sul caso della piastra Expo complica il quadro: il sindaco di Milano potrebbe avvalersi della prescrizione, ma tiene a che sia riconosciuta la sua innocenza, come ha esplicitato il suo avvocato Salvatore Scuto nell’udienza del 17 settembre.
Questa vicenda, alcune sirene romane e le comprensibili valutazioni su quanto sia cambiato lo scenario milanese del post-Covid sono certamente al vaglio di chi, saggiamente, già prima della pandemia parlava della necessità di essere “discontinuo da se stesso” in caso di ricandidatura. Oggi, a maggior ragione, Beppe Sala è la figura più adatta per interpretare il copione determinato dalla tornata regionale e referendaria. Altrimenti, bisognerà tentare di scriverne uno completamente nuovo, in un tempo non infinito.
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