Per due anni era parso che il problema del Pd fosse l’eccessiva subalternità alla leadership di Giuseppe Conte, indicato da alcuni dirigenti dem come il rappresentante del campo largo progressista. Ora che negli ultimi 18 mesi quegli stessi dirigenti hanno fatto esattamente lo stesso con Mario Draghi, sposando la fantomatica e inesistente agenda del banchiere, ci si rende conto che la frattura è forse più profonda.
Sono quasi 30 giorni che la sinistra ha già deciso di perdere le elezioni politiche del 25 settembre. Dapprima negando una strategica coalizione del campo largo nel far fuori il M5S (il partito con più voti dopo il Pd). Poi intestardendosi ancora di più sul banchiere, che nulla c’entra con la cultura della sinistra, divenuto anche inutile discriminante per definire buoni e cattivi: se stai con Mario, sei dei nostri; se non lo rimpiangi, non puoi far parte del club (solo così si spiega l’ok a Di Maio, ex grillino ora illuminato).
Pensateci: negli ultimi trenta giorni il Pd ha fatto e disfatto alleanze, intrapreso strategie politiche, condotto una campagna elettorale praticamente quasi solo nel nome di Draghi. Con alcune contraddizioni: ad esempio dicendo sì a Sinistra Italiana e Verdi (la cui ammissione nella coalizione ha definitivamente fatto capitolare Calenda) ma sbarrando la strada al M5S per aver fatto cadere l’esecutivo del tecnico, nonostante il partito di Fratoianni sia categoricamente contrario al programma di governo di SuperMario e infatti è sempre stato all’opposizione.
La questione merita una riflessione perché un harakiri simile nel nome di Draghi non ha certo riguardato il centrodestra: la Meloni è sempre stata all’opposizione del governo dell’ex Bce, giudicando negativamente quell’esperienza, mentre Salvini e Berlusconi ne facevano parte. Ciononostante la coalizione che secondo la sinistra va sconfitta “costi quel che costi” non ha permesso che un uomo autorevole influisse in modo così determinante sulla campagna elettorale e oggi si presenta unita alle elezioni, pur con mille criticità che su questo giornale abbiamo più volte rilevato.
Sempre sullo stesso tema (Draghi o morte) si e consumata la recente e definitiva rottura con Calenda, indisponibile ad accettare l’apertura da parte del Pd a Sinistra Italiana e Verdi per un pugno di voti in più. Il patto siglato con Calenda (oggi tramontato) prevedeva esattamente l’opposto di quello che dicono di volere Pd, Sinistra Italiana e Verdi: salario minimo, transizione ecologica, eccetera. Tutto il contrario dell’agenda Draghi, a cui Calenda si ispira, ed è ancora una volta in nome del banchiere e del suo programma di governo svolto sin qui che è avvenuta la lacerazione.
Il fatto è che l’alleanza Calenda-Pd non avrebbe mai dovuto farsi, sempre che l’intenzione non fosse quella di dare vita a un nuovo centro, tendente a centro-destra, e fare tutto ciò che la sinistra per costituzione non dovrebbe fare, con dentro gente indigeribile per buona parte degli elettori di centrosinistra, come Carfagna, Gelmini, Tabacci, Di Maio, forse anche Brunetta.
Un’ammucchiata senza senso (priva di un programma credibile e chiaro, oltre che dei suoi alleati più forti) che rivela la strategia di fondo del campo minato del centrosinistra: più che battere le destre, perdere alla meno peggio per tentare – con questa legge elettorale – di dare le carte per un altro giro. Al che Carletto da Capalbio con maggiore coraggio e coerenza ha fatto loro ciao-ciao con la manina.
Oggi i dirigenti democratici tacciano Calenda come irresponsabile, colpevole di aver avvantaggiato la destra dopo aver messo fine all’alleanza con i dem. Ma sono loro stessi che hanno accettato in principio di correre questo rischio alleandosi con cavallo pazzo Calenda, mostrando poca chiarezza di intenti nel costituire una coalizione che vuole tutto e il suo contrario. E chi ne esce ammaccato agli occhi degli elettori, tanto sul piano identitario quanto strategico, è proprio il Pd. Che si è fatto scaricare anziché decidere della sua stessa sorte. Fuori un altro, avanti il prossimo.
Il problema è che Letta e compagni, ubriachi dell’uomo Draghi (forse perché privi di una visione alternativa), hanno deciso di gettare la spugna ancor prima di iniziare a giocare. Non cogliendo l’opportunità di formulare una proposta politica indipendente dal premier in grado di battere la destra sui contenuti anziché con discutibili schemi elettorali.
In fin dei conti si tratta sempre di identità e di coerenza. Chi sei, cosa vuoi, dove vuoi andare.
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