«Questa è la storia di una società che precipita, e che mentre sta precipitando si ripete “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”». È la storia di un mondo, un’Europa, un’Italia, in cui aumentano le disuguaglianze, aumentano le conseguenze della crisi climatica, aumentano le migrazioni. La storia di un Paese che ha fatto del suo mare la fossa comune più grande del Pianeta e che decide di farsi governare da istituzioni che sembra facciano del loro meglio per allargarla.
La citazione iniziale, oltre che la fine dell’iconico film “La Haine” di Mathieu Kassovitz, rischia di essere la colonna sonora della fine di uno stato di diritto definibile come tale.
Negli ultimi dieci anni si sono succeduti al Viminale un ministro che ha stretto accordi con la Libia e i suoi trafficanti in favore di telecamera (solo una, quella di Avvenire, la sola testata a raccontare l’incontro Bija al Cara di Mineo), un leader di partito che ha partorito i “decreti sicurezza”, una ministra che ha bloccato in porto il più alto numero di navi salvavita di sempre.
Con questo governo, che ha appena superato il primo anno di legislatura, l’inadeguatezza che era di casa al ministero dell’Interno si è estesa a tutto l’esecutivo: dal ministro dell’Istruzione Valditara secondo cui «l’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità» al sottosegretario Fazzolari che vorrebbe insegnare a sparare a scuola, da Musumeci che rispetto alle alluvioni afferma che «il governo non è un bancomat» al ministro per l’Ambiente Pichetto Fratin che «ha la forza del dubbio» sull’origine antropica del cambiamento climatico, da Salvini che attribuisce alle batterie elettriche la responsabilità della strage di Mestre a Urso che dice che «l’esposizione del prezzo medio dei carburanti ha avuto successo», da Lollobrigida che «non si può arrendere all’idea della sostituzione etnica» a Santanchè che «non capisce perché dovrebbe fare un passo indietro», e ancora Sangiuliano che vuole togliere fondi al cinema, Sgarbi segnalato all’Antitrust per presunti incompatibili compensi esterni, Schillaci che azzoppa la sanità pubblica, Roccella che attacca i diritti delle donne e delle coppie omogenitoriali, il viceministro Bignami che si traveste da nazifascista e il presidente del Senato che busti e simboli del nazifascismo li custodisce in casa.
Pur considerando il «pizzo di stato» e il «blocco navale» evocati dalla presidente del Consiglio, il monopolio della crudeltà, con l’opzione per i richiedenti asilo di versare 5,000 euro per evitare l’internamento in un Cpr, rimane al ministero dell’Interno.
In questi mesi Piantedosi ha firmato una circolare contro la protezione delle famiglie omogenitoriali, detto che «la disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli», «se fossi disperato non partirei, sono stato educato alla responsabilità», mentre declassa a «carico residuale» le persone non ancora sbarcate da una delle navi delle Ong.
Rispetto al finanziamento di queste ultime, il suo compagno di partito Crippa ha dichiarato: «Ottant’anni fa il governo tedesco decise di invadere gli Stati con l’esercito ma gli andò male, ora finanziano l’invasione dei clandestini per destabilizzare i governi che non piacciono ai social-democratici».
Oltre alle istituzioni comunitarie e alla società civile, c’è un terzo ente che spesso arriva prima della politica securitaria e che prova a colmarne i vuoti, e che in quanto tale è visto come un nemico: la magistratura.
La giudice Apostolico è stata attaccata, spiata e messa alla gogna per aver, come sostengono svariati costituzionalisti e magistrate, semplicemente disapplicato un provvedimento nazionale in contrasto col diritto europeo sovraordinato, che prevede la detenzione amministrativa come extrema ratio, da applicare solo in casi eccezionali, per non renderla una misura di generalizzata privazione di libertà personale in assenza di una valida motivazione.
È solo la prima di una serie di decisioni giudiziarie che hanno rivelato e che rileveranno l’incongruenza di una politica migratoria fallace e l’incostituzionalità di molte sue disposizioni, dal decreto Cutro ai due post-Lampedusa che puntano a trattenere chiunque arrivi in Italia per il periodo più lungo possibile.
La premier Giorgia Meloni non si è limitata – come ha poi sostenuto – a criticare la giudice di Catania per non aver convalidato il trattenimento dei quattro migranti tunisini sulla base del primo decreto, ma l’ha attaccata frontalmente, perdendo così una grande occasione per dimostrare che la sua destra di governo vuole stare nel perimetro delle democrazie costituzionali e non in quello delle autocrazie, che hanno messo sotto attacco giudici e Corti e scomunicato chi, per mestiere, ha invece il dovere di garantire la tutela dello stato di diritto, specialmente quando la minaccia arriva da leggi borderline e da un clima di tensione.
L’obiettivo delle frasi di Donzelli e Delmastro è infatti proprio quello di aumentarlo: «Non spetta ai singoli magistrati stravolgere le decisioni del governo» ; «I magistrati che si oppongono alle norme del governo sull’immigrazione sono un ostacolo».
È comprensibile che non faccia piacere alle maggioranze politiche di turno, ma si tratta di una funzione di controllo vitale per le democrazie costituzionali, ed esse dovrebbero limitarsi a criticare la sentenza e impugnarla con ricorso per Cassazione in piena dialettica istituzionale. Invece, il comportamento della destracentro al governo è ascrivibile nella cornice di un grave deragliamento dai binari della democrazia costituzionale.
Prima, informazioni riservate carpite al 41bis e diffuse per colpire oppositori politici. Poi, l’utilizzo di video datati e non si sa da chi conservati per colpire gli «scafisti in toga», come sono stati definiti i giudici del processo Open Arms o dei provvedimenti sui rave.
A un anno dall’insediamento del governo Meloni, è forse giunto il momento di fermarsi, prendersi del tempo rispetto alla frenesia del vortice mediatico, realizzare la portata di dichiarazioni di questo tipo e verso dove ci porta la pratica che ne consegue.
Di fronte a ogni singola crudeltà precedentemente elencata, ci sarebbe grande bisogno di scendere in piazza e starci. La morale della società italiana appare però anestetizzata e, in particolar modo dall’inizio della pandemia, una crescente assuefazione sembra farsi largo nel Paese.
Siamo diventati indifferenti a inaccettabili dichiarazioni e accondiscendenti di fronte a guerre, naufragi, aggressioni razziste. Rimuoviamo tutto in fretta. Invece dovremmo imparare a non dimenticare, per imparare a (re)agire.
È tempo quindi di uno scossone, di un risveglio, che scelga meno i social e più la partecipazione, meno il centro e più le periferie, meno i salotti e più le fabbriche, meno il futuro e più il presente, perché chi ha l’urgenza dell’oggi non può curarsi dell’urgenza del domani.
Bisogna muoversi e smuovere, e smetterla di pensare che tutto sommato va ancora benone. Perché «il problema non è la caduta ma l’atterraggio».
RETTIFICA
Riceviamo e pubblichiamo di seguito una precisazione dell’ufficio stampa del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari.
All’interno dell’articolo si legge: «Fazzolari che vorrebbe insegnare a sparare nelle scuole». Un’affermazione che trae origine dalla falsa notizia, diffusa il 7 febbraio scorso dal quotidiano “La Stampa”, secondo cui il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari avrebbe manifestato al generale Franco Federici la suddetta volontà durante un colloquio a margine di un evento a Palazzo Chigi.
La notizia in questione è priva di qualsiasi fondamento. Circostanza riconosciuta anche da diverse testate giornalistiche che l’hanno inizialmente rilanciata e che in un secondo momento hanno ammesso l’errore pubblicando successivi articoli di precisazione.
In particolare, la ricostruzione pubblicata da “La Stampa” e ancora oggi avallata dal Suo settimanale, è infondata per le seguenti ragioni:
- nessun giornalista de “La Stampa” era presente nel momento in cui si è svolta la conversazione nella quale il sottosegretario avrebbe manifestato l’intenzione di «insegnare a sparare nelle scuole»
- nessuno dei giornalisti di altre testate effettivamente presenti sul posto ha riportato nulla in proposito alle presunte intenzioni del sottosegretario
- i due protagonisti del colloquio hanno provveduto a smentire tempestivamente la ricostruzione de “La Stampa” con proprie note ufficiali, rintracciabili tramite una semplice ricerca
- non risultano passate proposte o dichiarazioni del sottosegretario che suggeriscano la volontà di «insegnare a sparare nelle scuole»
Si chiede pertanto di rettificare quanto affermato nell’articolo già nel prossimo numero della Sua rivista, diversamente saranno valutate azioni di natura legale.
Cordialmente
Ufficio Stampa sottosegretario Giovanbattista Fazzolari