C’è il cesso che sta in alto, quattro grandi gradini per arrivarci, perché l’appartamento dei poveri sta molto più in basso rispetto al livello del suolo.
È una delle immagini più potenti del film. Basterebbe questo, e la scena dell’alluvione, che spiega le differenze tra chi sta sopra e chi sta sotto per rimborsare, in soli cinque minuti di film, il prezzo del biglietto.
Ci sono i ricchi coreani che sognano per i propri figli il giovane precettore che ha studiato nel college inglese. Ci sono i lavoretti per sbarcare il lunario con la scena surreale della casetta affollata da centinaia di cartoni per pizza da piegare, e costosi bunker blindati nel cuore delle ville di lusso per proteggersi dalla guerra che non c’è.
Se ve lo foste perso approfittate dell’effetto-notte-delle-stelle e correte a vedere “Parasite”, che esce di nuovo nelle sale in questi giorni dopo essere stato sommerso dalla pioggia degli Oscar, con la foto delle cinque statuette d’oro strette nella mani di Bong Joon-ho, in regista rivelazione.
Così come “Joker” è stato il film che ha spiegato perché soffia il vento della protesta che attraversa le periferie del mondo, “Parasite” il racconto che fa capire meglio di ogni altra cosa la forbice della nuova disuguaglianza nelle società verticali.
Certo, dentro “Parasite” sono tante altre cose: alcuni sapidi ingredienti cattivisti – viene in mente il vecchio splendido e dimenticato “Brutti sporchi e cattivi” di Ettore Scola – e tante citazioni Tarantiniane: coltelli, omicidi, esplosioni di follia apparentemente deviante.
E poi – ovviamente – c’è il gioco della sostituzione che è il cardine dell’intreccio: l’unico modo di ribaltare la scala sociale è diventare Avatar di qualcun altro, riuscire a impersonare la ricchezza che non si può raggiungere, perché il fossato tra i ricchi e i poveri non è più colmabile in nessun modo con gli strumenti ordinari della democrazia.
Ma il punto, il cuore della storia è uno solo: l’odore. In questo intreccio di poveri che sostituiscono i loro padroni fino alla tragedia finale e al lavacro dell’omicidio, l’odore è il segno indelebile della vergogna.
Puoi fingerti quello che vuoi, ma non puoi cancellare quello che hai addosso, il timbro della tua condizione umana. Puoi comprarti un telefonino, ma non puoi sanare in nessun modo l’assenza di una doccia.
È curioso che il discorso che Joaquim Phoenix ha tenuto per celebrare il suo “Joker” si presti benissimo anche per raccontare “Parasite”.
Se oggi non ci fosse l’ambizione di questo grande cinema la disuguaglianza non avrebbe cittadinanza, come tema, nel dibattito contemporaneo.
Certo, c’è stato il libro di Thomas Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”, con l’importante dibattito che ha suscitato: ma è stato un prodotto per il mondo intellettuale, un riferimento per gruppi intellettuali che in Europa e in America cercano una risposta al male dei tempi.
Mentre “Parasite” e “Joker” hanno riscritto il codice delle priorità e sono andati a parlare al grande pubblico: sono due film che spiegano come senza servizi sociali e pari opportunità di accesso all’istruzione le nostre società arrivano a danzare impazzite sull’orlo del baratro.
Questi sono due film che sono arrivati al cuore dell’opinione pubblica: non alle dame di San Vincenzo e ai progressisti caritatevoli, ma a chi la disuguaglianza la vive sulla propria pelle.
Diceva Pierpaolo Pasolini che fino al 1968 per riconoscere un povero, un ricco o un fascista bastava “guardarli in faccia”. E che dopo il 1968 questo non era più stato possibile.
Andatevi a rileggere quel folgorante “Discorso sui capelloni”: Pasolini considerava l’ingresso nell’età dell’indistinguibile – chiamiamola così – come una sciagura, e i capelli lunghi come il segno omologante che rendeva tutti (apparentemente) uguali. Sembrava un messaggio regressivo, ad alcuni persino razzista.
Il Pasolini più reazionario che lanciava la sua invettive anti-moderna contro i capelloni e la società dei consumi che livellava ogni cosa e che cancellava la storia e le sue stratificazioni. Dicevano: Pasolini lo fa perché al fondo è conservatore, criticandolo persino da sinistra.
Oggi, a mezzo secolo da quello “scritto corsaro”, ne possiamo capire meglio il senso, la portata, la capacità visionaria: nel tempo dei consumi siamo tutti Avatar.
“Parasite” e “Joker” ci dicono che l’ibridazione fra questa società del benessere apparente e l’era digitale rende l’illusione della ricchezza collettiva insostenibile per chi vive (metaforicamente e non) sotto il livello della fogna.
Spiega perché si tratti di un miraggio anche per chi può indossare – anche se povero – i vestiti firmati e gli accessori del tempo dei consumi.
Ma questo apparato di accessori luccicanti non può cancellare la sua origine, il suo codice di provenienza, il suo dna più profondo, il suo odore.
Andate a vedere “Parasite” per capire non quello che “sono” i nuovi poveri “cattivi” di Bong Joon-Ho, ma quello che siamo noi: sapendo che il mondo non potrà guarire dalla malattia della disuguaglianza regalando telefonini in comodato, ma solo quando riuscirà ad elevare al grado zero l’umanità dei sommersi che vivono sotto il livello del benessere.