Ci sono due immagini su tutte fissate nella mia memoria in questa prima parte di un agosto acido e afoso.
La prima risale alla ben nota festa sulla spiaggia del Papeete a chiusura della sessione di governo della Lega e di Matteo Salvini sulla spiaggia di Milano Marittima. Non è la fastidiosa versione rockettara dell’inno di Mameli. Né il capo leghista che fa il dj in mutande da bagno e a torso nudo, mostrando al popolo tutta la sua abbondante magnificenza fisica.
E non è la cubista scosciata in costume leopardato che, come avrebbe detto mia madre, copriva a malapena la patonza. Non posso comunque dire “chi se ne frega” visto che il primo dei festaioli era il ministro dell’Interno e vice premier del governo gialloverde in quei giorni ancora non sfiduciato.
Del resto, se non fosse stato lui il protagonista, la mischia del Papeete la si sarebbe catalogata come una festa di spiaggia di un gruppo di villeggianti un po’ alticci. Capaci di farsi un baffo dell’inno di Mameli e degli italiani che lo rispettano.
Il fotogramma che non dimentico è del ministro Salvini, probabilmente ai piedi del palco festaiolo, immortalato di profilo con il volto all’altezza della patonza di una non identificata signora o signorina.
Che al nostro ministro quella cosa piaccia lo sapevamo da un pezzo, ma lo scatto mi ha colpito. Infatti mancava soltanto il gesto di infilare un biglietto da 50 euro nelle mutande da bagno della cubista del Papeete!
Poche sere dopo, nel vedere le tante ammiratrici del famoso Capitano in fila per due ore su una spiaggia per un selfie, ho immaginato che forse avrebbero preferito partecipare a una festa sulla sabbia, invece di assistere a uno dei suoi ripetitivi comizi. Purtroppo per loro il Papeete non era ripetibile.
La seconda immagine che conservo è di tutt’altro genere. È la composta rappresentazione del dolore dipinta sul volto di una donna all’apparenza fragile che, con voce ferma, scandisce parole giuste e acuminate come frecce.
È una donna genovese che nel crollo del ponte Morandi ha perso buona parte della sua famiglia. Una donna che, a un anno dal disastro, si rivolge agli uomini del governo presenti alla commemorazione con la fierezza civica che a molti di loro difetta.
La stessa donna ha poi dichiarato che in quella giornata, a farle bene, è stato di poter parlare al presidente Mattarella guardandolo negli occhi e sentendosi accolta.
Del resto a quale altra figura dello Stato poteva affidarsi? Di sicuro non ai due vice premier, i Salvini e Di Maio, tenuti separati per evitare che, durante la messa, invece del segno della pace si scambiassero un cazzotto.
Vedere e ascoltare questa donna all’apparenza fragile mentre dà una lezione di moralità civica mi ha fatto ricordare un’amica anch’essa genovese che se n’è andata poche settimane fa. Una donna della stessa pasta della signora ascoltata il 14 agosto. Ileana era forte, decisa, una cittadina onesta capace di parlare chiaro e con durezza a chiunque, intransigente ma accogliente e serena pure nel dolore fisico.
La maggioranza di noi donne è oggi rintanata nel silenzio. Lo sono anche quelle che un tempo volevano cambiare il mondo e che, forse stanche per le troppe delusioni, subiscono che a vincere sia un modello femminile che ha nella volgarità esibita il tratto prevalente.
Però è il momento di riprendere la parola, di ritornare sulla scena. Così come è il momento di chiedere conto, a quelle di noi che stanno nelle istituzioni, del loro operato e della sottomissione ai rispettivi capi. Sono state scelte, ma la storia ci dice che pure gli schiavi e le schiave trovano il coraggio di ribellarsi per conquistare la libertà.
Dunque è il momento che quelle di noi che esercitano una rappresentanza politica e istituzionale riconoscano di avere un debito di rappresentanza verso le altre. C’è una nuova battaglia da ingaggiare.
È adesso che sono a rischio i valori e i principi fondamentali che rendono ricco il vivere di una comunità di donne e uomini. Il primo degli autoritarismi da sconfiggere è la prevalenza del maschio sulla donna.
Contro chi ci violenta e abusa del nostro corpo non basta la pur necessaria durezza delle pene. Perché si affermi quella che un tempo abbiamo chiamato parità di genere, servono atti e comportamenti che rifiutino la prevalenza dell’uno sull’altro.
La democrazia della convivenza civile non può contemplare che qualcuno si presenti come fosse il portavoce di sessanta milioni di italiane e di italiani.