Le ultime, vere Olimpiadi sono andate in scena a Roma nel ’60, probabilmente l’anno più felice della nostra storia. Era da poco caduto il governo Tambroni, sostenuto dall’appoggio esterno del MSI, l’Africa era nel pieno del processo di emancipazione dal colonialismo europeo, non c’erano barriere, si poteva accedere liberamente al villaggio olimpico e l’etiope Abebe Bikila vinse nel tramonto di una Roma d’incanto, correndo la maratona a piedi nudi e giungendo al traguardo, sotto l’Arco di Costantino, fra due ali di folla festante. Erano trascorsi venticinque anni dal discorso con cui Mussolini aveva annunciato l’inizio della Guerra d’Abissinia; una generazione dopo si viveva in democrazia.
Spiace dirlo, ma di quello spirito e di quegli ideali non è rimasto praticamente niente. Le Olimpiadi che si aprono oggi a Parigi, infatti, saranno senz’altro spettacolari per il livello dei campioni e delle campionesse che si esibiranno nelle prossime due settimane, ma non rispecchieranno in alcun modo la visione del barone Decoubertin, che le rilanciò nel 1896 per promuovere un orizzonte di convivenza civile fra i popoli.
In quasi centotrent’anni di questa manifestazione, giunta alle trentatreesima edizione, abbiamo assistito a momenti di autentica grandezza e a episodi terribili: dallo sdegno di Hitler per le vittorie di Jesse Owens, la freccia nera dell’Alabama che vinse quattro ori nell’atletica a Berlino ’36 ma rimase un “coloured” persino nell’America democratica di Roosevelt, alla tragedia di Monaco ’72, quando undici atleti israeliani vennero assassinati da un commando di terroristi palestinesi dell’organizzazione “Settembre nero” che, con quello scempio, condusse l’opinione pubblica mondiale alla definitiva perdita dell’innocenza. Senza dimenticare i reciproci boicottaggi di americani e russi a Mosca ’80 e Los Angeles ’84, al crepuscolo della Guerra fredda, ma anche, declinando la narrazione in termini positivi, attimi di splendore come Muhammad Ali, già tormentato dal Parkinson, che accende la fiaccola olimpica ad Atlanta nel ’96. Per quanto riguarda le gioie azzurre, sono indimenticabili i trionfi di Sidney 2000, coronati dall’oro nella canoa di Josefa Idem, e la maratona vinta da Stefano Baldini ad Atene nel 2004.
Negli ultimi vent’anni, vicende sportive e questioni geo-politiche si sono intrecciate sempre di più. Basti pensare alle Olimpiadi pechinesi del 2008, che fornirono una chiara indicazione sulle ambizioni del Dragone nel Ventunesimo secolo, o a quelle londinesi del 2012, quintessenza delle aspirazioni tardo-imperiali del Regno Unito. E se il 2016 di Rio de Janeiro ci ha mostrato il volto di un Brasile dilaniato dalle divisioni interne ma, comunque, capace di rilanciare il proprio ruolo di attore globale, il 2021 di Tokyo ci ha detto che il Giappone è ancora in grado di recitare una parte da protagonista, anche in un periodo segnato dal Covid e dalle sue drammatiche conseguenze.
A Parigi, in una Francia caratterizzata dall’incertezza e da una crisi politica senza precedenti, si parrà la nobilitate di un Paese, un tempo egemone, che non vuole rassegnarsi al proprio declino e di un continente, l’Europa, alla disperata ricerca di un’identità.
Ribadiamo: dello spirito olimpico, tanto di quello dell’Antica Grecia quanto di quello dell’era moderna, è rimasto poco o nulla, come testimonia l’obbligo per russi e bielorussi di partecipare in qualità di atleti individuali neutrali, facendo finta che i loro Stati non esistano e identificandoli, di fatto, con i regimi di Putin e Lukašėnko (come se, peraltro, anche stavolta non partecipassero Paesi che tutto sono fuorché democrazie). Cerchiamo di salvare almeno la dignità.