Negli ultimi dieci anni in Italia le elezioni europee hanno sempre consolidato la leadership che in quel momento era sulla cresta dell’onda. Ma dietro la recente vittoria alle urne di Giorgia Meloni c’è un importante elemento di novità rispetto al passato.
Nel 2014 l’allora neo-presidente del Consiglio Matteo Renzi mise il turbo al Pd insistendo sulla linea della rottamazione riformista che lo aveva già portato alla guida del partito. Nel 2019 Matteo Salvini trainò la Lega sopra il 30% avendo (più o meno) mantenuto – da vicepremier e ministro degli Interni – la promessa di chiudere i porti ai migranti.
Nel caso di Meloni le cose sono andate diversamente: da quando è diventata premier, la leader di Fratelli d’Italia ha astutamente mutato i toni e la sostanza del suo discorso politico, riuscendo a farsi percepire dall’establishment come un capo di governo affidabile ma senza mai rinunciare al suo programma di destra radicale né alla sua immagine di «underdog». Ed è così che, dopo le politiche, ha avuto successo anche alle europee.
Mentre Renzi e Salvini sono rimasti nel tempo alfieri l’uno delle élites e l’altro del populismo, finendo anche per restare incastrati in quella loro ristretta dimensione, Meloni ha capito che per durare doveva ricalibrare la sua strategia comunicativa a seconda dei momenti e degli interlocutori. E così ha fatto.
Un giorno proclama di essere «una del popolo» e il giorno dopo presiede il vertice del G7, un giorno si scaglia contro l’Europa «viziata» dal palco spagnolo di Vox e l’indomani si fa fotografare sorridente a braccetto con la presidente della Commissione europea von der Leyen.
Questa studiata ambivalenza (o ambiguità?) l’ha proiettata a un livello superiore. Soprattutto sul piano della diplomazia internazionale, la premier italiana ha fatto ampi passi verso il moderatismo – ha giurato fedeltà agli Stati Uniti di Joe Biden e, a certe condizioni, sosterrebbe l’Ursula-bis a Bruxelles – ma intanto sulle materie dei diritti civili, dei migranti, dell’ambiente e soprattutto delle riforme istituzionali, continua a marciare all’estrema destra.
Meloni, insomma, si sta imponendo sulla scena europea come la leader di un nuovo modo di rappresentare l’area conservatrice, distante sia dalle pulsioni neonaziste dell’Afd sia dal centrismo del Ppe: una destra identitaria e neoliberista che si muove rispettosamente nel recinto dell’atlantismo. Pescando un po’ da De Gaulle, un po’ dalla Tatcher e un po’ dall’amico (filorusso) Orbán.
Nei prossimi mesi sarà interessante monitorare, da un lato, se e quanto questo modello riuscirà a incidere sulle prossime politiche dell’Unione europea e, dall’altro, se il Governo di Giorgia sarà in grado di superare indenne – almeno nei sondaggi – la prova dei conti di fine anno, quando la morsa del Patto europeo di Stabilità si stringerà sulla manovra finanziaria italiana.
Metà-morfosi
«Giorgia Meloni non riesce a smettere di vincere», ha commentato l’autorevole quotidiano online Politico.Eu dopo le elezioni europee.
Tra i capi di Stato e di governo dei maggiori Paesi membri, oggi la nostra presidente del Consiglio è di gran la più forte in patria. Fratelli d’Italia, rappresenta il terzo partito nazionale più numeroso nel nuovo Parlamento europeo dietro ai democristiani tedeschi della Cdu e ai lepenisti del Rassemblement National francese: un traguardo assolutamente impensabile fino a solo una manciata d’anni fa.
L’ex militante del Fronte della Gioventù, che da ragazza tesseva pubblicamente le lodi a Benito Mussolini, ha scalato le preferenze degli italiani grazie anche al fatto di aver trascorso un lungo tempo all’opposizione mentre tutte le altre forze politiche si cimentavano in alleanze di governo più o meno larghe, con risultati il più delle volte scarsi in termini di popolarità tra gli elettori.
Alle politiche del 2022 Meloni ha capitalizzato gli anni passati fuori dalle stanze dei bottoni e dei “caminetti”. Ma, una volta conquistato il potere, è riuscita in un’impresa forse ancor più difficile: quella di rassicurare il “Sistema” senza perdere consenso, ma anzi guadagnandone ancora.
«Quando è diventata primo ministro – ha scritto di lei il New York Times – ha fatto rabbrividire l’establishment europeo a causa delle sue credenziali di estrema destra, euroscettiche e delle sue radici post-fasciste» ma «ora quell’establishment la considera un partner pragmatico su questioni internazionali fondamentali».
La premier ha ben presto lasciato cadere nel dimenticatoio certe sparate da campagna elettorale come quelle sul blocco navale o sull’eliminazione delle accise sui carburanti, ha parzialmente sedato le sue sfuriate sovaraniste e ha confermato il pieno sostegno dell’Italia all’Ucraina. Eppure ciò non significa che abbia annacquato le proprie posizioni radicali.
Mentre con una mano si dava una “ripulita”, con l’altra il Governo Meloni si è accordato con Tirana per deportare i migranti in Albania, ha ristretto i diritti dei figli delle coppie omosessuali, ha spalancato i consultori alle associazioni anti-aborto, ha tagliato la spesa sanitaria (in rapporto al Pil), si è fermamente opposto a tutte le principali misure europee contro il cambiamento climatico, ha preso possesso della Rai e, soprattutto, ha varato una riforma costituzionale che punta a rivoluzionare l’assetto istituzionale dell’Italia dando pieni poteri a Palazzo Chigi e relegando in un angolo il Quirinale.
Non solo. Mentre seduceva una parte del mainstream, la premier ha continuato a inviare messaggi demagogici ai suoi elettori, dalle tasse definite «pizzo di Stato» fino all’appello elettorale «Sulla scheda scrivete solo Giorgia». Senza contare che attendiamo ancora una sua professione di antifascismo.
Incognite
Da due anni a questa parte Meloni sta facendo da apripista per una “normalizzazione” della destra estrema in Europa con l’obiettivo di portarla a sedere al tavolo delle grandi decisioni.
Il risultato delle ultime elezioni le ha dato una spinta notevole. Proprio mentre scriviamo, la presidente del Consiglio italiana sta tentando un delicato gioco di sponda con von der Leyen per ottenere una poltrona di peso in Commissione e superare i veti del liberale Macron e del socialista Scholz. Ma, al di là di come andrà a finire la partita delle nomine, è soprattutto nelle dinamiche dell’Europarlamento che Giorgia potrà far fruttare il suo bottino elettorale. Magari facendo squadra con Marine Le Pen, anche lei uscita trionfante dal recente voto, per creare un forte asse conservatore alla destra del Ppe.
Se poi il Rassemblement National dovesse vincere le legislative francesi, il contesto per le due donne forti dell’alt-right – entrambe molto impegnate a “moderatizzarsi” – si farebbe ancor più favorevole. Senza contare che fra quattro mesi le presidenziali americani potrebbero riportare alla Casa Bianca l’amico Donald Trump.
Al netto di questo risiko, per il Governo italiano c’è però una patata bollente all’orizzonte, e riguarda la manovra economica di fine anno. Tra procedura d’infrazione europea e misure da rifinanziare, il Ministero dell’Economia dovrà raggranellare una cifra tra i 20 e i 30 miliardi di euro: difficile riuscirci senza toccare le tasse, o almeno le agevolazioni fiscali. Ecco perché la Legge di Bilancio sarà uno snodo decisivo per misurare l’effettiva solidità della nuova destra meloniana.