Che l’economia italiana vada male è oramai un dato di comune dominio. E se ne parla di frequente e a qualsiasi livello. Quello che stupisce, tuttavia, è che tutti, e specie i più noti intellettuali, non si chiedono quale sia la causa prima di questo disastro. Si parla soltanto di tanti singoli effetti dannosi e li si considera come un dato di fatto, un dato, per così dire, naturale, o comunque inestirpabile, con il quale bisogna convivere, adottando, semmai, qualche singolo rimedio. Eppure è sufficiente concentrare lo sguardo sulla storia degli ultimi cinquanta anni, per capire che la causa di tutti mali è da ricercarsi nel “pensiero unico dominante” del “neoliberismo”, che, puntando sul dato reale della “globalizzazione dei mercati”, dovuta alla progressiva e pressoché generalizzata eliminazione dei dazi alle importazioni, ha considerato il “libero mercato globale”, un potere a sé stante, capace di imporre alla politica, e quindi al diritto, le regole da seguire.
Si è dato così spazio a una diversa “concezione dell’economia”, che non è più considerata alla stregua di un mercato locale in cui vengono a incontrarsi “i bisogni” e la “quantità di merci” capaci di soddisfarli, assegnando alla “determinazione del prezzo”, inteso come “unità di misura”, la funzione di “distributore” dei beni disponibili, ma è considerata, per l’appunto, alla stregua di un “autonomo potere”, il cui “obiettivo” è quello di perseguire la “concentrazione” della ricchezza nelle mani di pochi, ai quali resterebbe affidata la “funzione umanitaria” di far aumentare la ricchezza stessa, investendola in attività produttive, e arrecando così benefici per tutti. “E’ falso”, dirà Bauman (Z. Bauman, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. Falso!), ma la sua voce, benché pienamente condivisa da celeberrimi e onesti economisti, non è riuscita a entrare nell’immaginario collettivo, e tanto meno nella mente dei nostri politici. Un “abbaglio” senza precedenti, che ha ottenebrato anche la mente di illustri giuristi da sempre propensi a pensare a mutazioni dell’ordinamento vigente, per affermare le proprie personali idee, anche se, in tutto o in parte, non condivisibili.
A questa diversa concezione dell’economia ha peraltro creduto di dare un fondamento scientifico Milton Friedman, illustre esponente della scuola di Chicago, il quale, nel suo noto libro “La storia della moneta americana dal 1867 al 1960” (un libro che ha entusiasmato molti Capi di Stato da Pinochet a Thatcher, da Reagan a Bill Clinton, che gli hanno dato immediata attuazione, producendo danni economici incalcolabili), ha affermato che “l’essenza dell’ordine del mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza” e che “le regole sono poste automaticamente dal libero mercato”. In realtà, Friedman non ha affermato nulla di scientificamente valido ed ha soltanto operato una scelta “fideistica”, ponendo in primo piano l’importanza della “concorrenza”, cioè della lotta di tutti contro tutti, per ottenere la “concentrazione” della ricchezza nelle mani di pochi. Ed è ovvio che in questo ordine di idee, sia divenuto necessario predisporre un “contesto” economico il più possibile idoneo ad assicurare lo svolgimento della attività concorrenziale.
Nasce così la nota “ricetta” dello stesso Friedman, che si compone di tre punti: a) deregulation, b) privatizzazione; c) riduzione delle spese sociali. Una ricetta assolutamente priva di coerenza con la realtà, e chiaramente diretta a soddisfare gli interessi egoistici dei settori più dinamici della finanza e della imprenditorialità mondiale. Si tratta, ovviamente, di obiettivi e regole profondamente sbagliati, poiché eliminano la funzione promotrice della domanda, che anima lo sviluppo, e la cui assenza finisce per far ripiegare l’economia su se stessa.
Per questa ragione le critiche furono immediate (vedi P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2013) e lo stesso Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, ebbe a pronunciare, già nel 2004, le seguenti, significative parole: “Partecipo al vertice annuale di Davos (dove si accede solo su invito e dove è possibile tastare il polso dei leader economici mondiali) da molti anni e avevo sempre sentito parlare della globalizzazione in termini entusiastici. La cosa sorprendente dell’incontro del 2004 è stata la velocità con cui le opinioni sono cambiate. Un numero sempre maggiore di partecipanti si domandava se la globalizzazione stesse realmente producendo i benefici sperati, specie nei Paesi poveri. Negli anni novanta a Davos si analizzavano i vantaggi dell’apertura dei mercati internazionali. Con l’inizio del nuovo millennio, si è cominciato invece a parlare della necessità di ridurre la povertà (tragicamente in aumento), di aumentare la tutela dei diritti umani (sempre più calpestati) e dell’esigenza di porre in essere trattati commerciali più equi” (J. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino, 2006, p. 5).
Una scelta fideistica
Comunque, si può affermare che oggi, di fronte alla visione dei disastri che sono stati prodotti, la teoria pseudo scientifica di Friedman ha dimostrato il suo fallimento, come lucidamente ha affermato Bernie Sanders, candidato alla Casa Bianca, in un discorso agli studenti della University of New Hampshire: “è ora di farla finita con la deregulation delle banche e con gli accordi commerciali scritti dalle multinazionali con la scusa di una prosperità che poi arriva solo ai ricchi speculatori causando precariato, sottoccupazione, delocalizzazioni, povertà; l’educazione deve essere accessibile a tutti e pubblica, e così la sanità; Wall Sreet truffa la gente e controlla la politica; bisogna lottare per creare più eguaglianza economica e un mondo più umano”.
Sta di fatto, comunque, che il diverso modo di guardare all’economia, proposto da Milton Friedman, in pieno “contrasto” non solo con il pensiero keynesiano (che pur aveva salvato l’America dalla depressione degli anni trenta), ma anche con le stesse tesi neoliberiste, che tentavano di superare il fallimento del laissez faire, sostenendo la libertà dei mercati (si pensi alla Scuola austriaca di Ludwig von Mises e Friedrich Hayek, nonché alla Scuola di Friburgo di Walter Eucken), si è subito esteso in tutto il mondo occidentale, ed è diventato un “credo”, persino della FED americana, della BCE, del FMI, della Banca centrale degli investimenti, degli USA e della stessa Unione Europea, arrecando ai Popoli degli Stati economicamente meno forti, come l’Italia, incalcolabili danni, forieri di ulteriori sciagure.
Insomma, questa illogica teoria del Friedman si è presto trasformata in un vero e proprio “sistema economico predatorio globale” che resiste a ogni critica ed è dato come intoccabile da tutte le forze politiche dominanti. Spiegare perché non è cosa facile e, probabilmente, soltanto l’esame analitico del radicamento e dell’espansione globale dei vari e complessi tasselli sui quali si è fondata la “realizzazione” di questo ignobile “sistema”, riesce a dare qualche plausibile spiegazione, utile anche a proporre qualche azione pratica che miri alla eliminazione, quanto meno graduale, di questa disastrosa situazione.
Un mondo finanziarizzato
Il primo tassello che ha dato attuazione al sistema economico predatorio neoliberista, è stato certamente la “finanziarizzazione” del mercato globale. La cupidigia degli operatori economici si è infatti soprattutto rivelata nel chiedere ai politici di legalizzare la prassi da tempo adoperata negli USA della cosiddetta “finanza creativa”, e cioè il fatto, del tutto anomalo, della “creazione di danaro fittizio” da parte delle banche.
È il caso, per fare soltanto un esempio, dei contratti “derivati”, i quali un tempo avevano un cosiddetto sottostante, cioè lo scambio, a fini assicurativi, di un bene contro un prezzo (il contadino che, a dicembre, vende a un mercante il raccolto di giugno, fissando un prezzo senza che nessuno dei due sappia se il raccolto sarà buono o cattivo), mentre oggi, nella diversa concezione dell’economia, il “sottostante” sparisce, e tutto si risolve in una “scommessa” del verificarsi o non di un certo evento, a una certa data. Ed è da notare che esistono anche altre “scommesse” di tal genere, come le “cartolarizzazioni” dei crediti o degli immobili da vendere, e così via. E quello che maggiormente colpisce è che queste “scommesse”, benché vietate dal codice civile, sono trasformate dalle banche in titoli di credito, che circolano nel mercato globale come moneta contante, il cui ammontare supera di 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo.
Come si nota, si tratta di “una truffa legalizzata”, che ha dato un colpo mortale alla economia reale, poiché ha consentito agli scommettitori di ottenere una somma di danaro mediante una semplice scommessa, cioè senza dare nulla in cambio, diminuendo così la ricchezza generale (Vedi L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e Governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino, 2013; idem, Il danaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nipoti, Einaudi, Torino, 2015). Sennonché eliminare questo scandalo comporterebbe un grande scompiglio economico, che, naturalmente, nessun politico vuole provocare.
Il secondo tassello, è costituito dall’ “indebitamento” degli individui e degli Stati economicamente più deboli. In Italia il debito pubblico è arrivato a 2.770 miliardi di euro e se smettessimo di pagare gli interessi, diverremmo insolventi e sottoposti a default. Dunque, nulla da fare.
Il terzo tassello, riguarda l’ingresso dell’Italia nella zona euro, avvenuta con il Trattato di Maastricht, il quale pone come valore assoluto “la forte competitività”, violando il “principio fondamentale” della “eguaglianza economica e sociale”, sancito in Costituzione (art. 3, comma 2, Cost.) e quanto prescrive lo stesso articolo 11 Cost. (posto a fondamento della ratifica di quel Trattato), il quale consente “limitazioni di sovranità” (e non “cessioni”), soltanto “a condizione di parità” con gli altri Stati” e a fini “di giustizia”, condizioni che non sono per nulla rispettate. Né è da sottovalutare il fatto che la cessione della “sovranità monetaria” ha comportato, con l’entrata in vigore della moneta umica gestita dalla BCE, la eliminazione della “leva monetaria”, indispensabile per regolare l’andamento della nostra economia interna, facendo ricorso alla modifica, sia dei tassi di interesse (ora competenza esclusiva della BCE), sia dei tassi di cambio, possibilità esclusa dall’ingresso della moneta unica, che ineluttabilmente ci pone in condizioni di inferiorità rispetto agli Stati membri con una economia più forte della nostra.
A parte soluzioni più coraggiose, come quella dell’emissione da parte del Tesoro di una moneta complementare (come già fece il Governo Moro, emettendo, con pieno successo, le famose 500 lire statali), cosa che oggi è ritenuta possibile da eminenti economisti, come Stiglitz e Galbraith figlio, si potrebbe almeno proporre, sul piano politico, una cancellazione, nell’atto di ratifica del Trattato di Maastricht, delle parole “forte competitività”, sostituendole con una frase, che ridia alla “concorrenza” il posto che le spetta nell’ambito di un sistema economico che si fonda, non sull’indimostrato valore della “concorrenza”, ma sul valore della persona umana e del progresso materiale spirituale della società (artt. 3, 41, 42, 43, 47).
Come ricostruire e da dove cominciare
Il quarto tassello è stato quello più dannoso e maggiormente in contrasto con i “principi fondamentali” della nostra Costituzione. Si tratta delle “privatizzazioni”, le quali hanno riguardato, non solo i beni tradizionalmente considerati demaniali, ma anche i beni, i servizi pubblici essenziali e le attività, che l’art. 43 della Costituzione “riserva” allo Stato o a Comunità di lavoratori o di utenti, costituenti, nel loro complesso, il nuovo “demanio costituzionale”, inalienabile, inusucapibile e inespropriabile. Si tratta delle “attività” riguardanti “i servizi pubblici essenziali”, come i trasporti, le comunicazioni stradali, marittime e aeree (si pensi a Alitalia), le comunicazioni radio televisive, la telefonia e così via dicendo, e ancora “le fonti di energia”, come l’acqua, l’energia elettrica, il gas e simili, nonché quelle “attività” che si svolgono in situazioni di monopolio, come la gestione dei beni di uso pubblico. Si vuol dire che una politica accorta potrebbe cominciare, magari gradatamente, a “nazionalizzare” questi beni, servizi e attività, ponendoli fuori mercato e facendo in modo che i loro frutti non vadano a privati stranieri, ma entrino nelle casse dello Stato, delle Regioni e degli Enti pubblici.
A tal proposito l’ostacolo è la volontà di Mario Draghi, il quale, il 2 giugno 1992, sul panfilo Britannia, di fronte a cento delegati della City londinese, affermò che “un’ampia privatizzazione è una grande, direi, straordinaria decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico”. Ed è da sottolineare che Draghi continua a professare queste idee, come ha dimostrato con il suo decreto “concorrenza”, mentre in questo indirizzo lo segue parzialmente il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, la quale, da fervida neoliberista, pensa alle “nazionalizzazioni” delle reti, ma unicamente in vista di un servizio che lo Stato dovrebbe offrire alle “imprese private”, che, sole, produrrebbero posti di lavoro.
Come agevolmente si nota, l’intero sistema economico predatorio neoliberista, che, a prima vista, appare fortemente radicato in occidente, ha in realtà un tallone di Achille, costituito proprio dalla privatizzazione di beni, servizi e attività, che rientrano nella “proprietà pubblica demaniale” e che, come tali, devono assolutamente considerarsi “proprietà pubblica” del Popolo sovrano (art. 42, comma 1, Cost.). La loro privatizzazione, infatti, sbilancia l’economia del nostro Paese a favore dei privati, che ovviamente agiscono nel loro personale interesse, e impedisce un pronto intervento dello Stato specie in casi di emergenza, come si è visto in occasione della pandemia e della guerra in Ucraina. Ed è fuor di dubbio che detta esperienza ci ha fatto capire che, per il bene della Nazione, è indispensabile, come sancisce il terzo comma dell’art. 41 Cost., un “coordinamento” della “attività economica pubblica e privata” “a fini sociali” e che porre le fonti di ricchezza nazionale solo in mano privata, costituisce una arma contro gli interessi del Popolo e, in ultima analisi, contro la stessa esistenza del nostro Stato comunità.
E si tenga presente che la riconquista, sia pur graduale, della “proprietà pubblica demaniale”, caduta in mano privata, è indispensabile per ricostruire un sistema economico che ponga al centro il valore della persona umana e il progresso materiale e spirituale dell’intera società, come sanciscono, rispettivamente, i citati art. 3, comma 2, e art. 4, comma 2, della nostra Costituzione repubblicana e democratica.
Alla luce di quanto detto a proposito delle lampanti violazioni dei “principi fondamentali” sanciti in Costituzione, riterrei difficile pensare che i nostri governanti possano continuare a ritenere la “concorrenza” una norma sovrana, una grundnorm, direbbe Kelsen, di valore superiore alla nostra Carta costituzionale, e non si adoprassero per adottare gli opportuni provvedimenti. Lo impone, peraltro, il dovere inderogabile di adempiere alle proprie funzioni con disciplina e onore (art. 54 Cost.).
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