Nel giorno della morte di Andrea Camilleri, ho letto una frase che mi ha colpito. Questa:
“Gli innamorati non perdono tempo a scrivere ‘ti voglio bene’, mandano una sigla, tvb. E se si vuole far partecipi gli amici di un dolore o di una gioia, basta inviare loro il disegnino che mostra un faccino triste o sorridente. L’omologazione assoluta. Spero che i poeti, gli scrittori, gli artisti, gli scienziati continuino a scrivere lunghe lettere agli amici, ai colleghi, alle loro donne. Altrimenti i nostri posteri non capiranno nulla dei nostri sentimenti, di com’eravamo” (da Segnali di fumo).
Mi ha fatto venire in mente una cosa. E cioè che oggi dai 13-18enni, nati tra il 2006 e il 2001, ai 35-40enni nati tra il 1984 e il 1980 c’è un’intera generazione che comunica in larghissima parte non più con le parole ma tramite una serie di codici che digita su una tastiera e che corrispondono a parole. Non più parlate, ma scritte. Quasi esclusivamente scritte.
Non più parole scritte per intero, non più concetti argomentati, ma la loro sterilizzazione. Col risultato che il linguaggio di tutti si è appiattito in modo considerevole, il nostro vocabolario fortemente impoverito e il modo di esprimere i nostri sentimenti gravemente limitato. Di lì una serie di abbreviazioni, stravolgimenti e forzature. Tutte in nome della brevità e della sintesi estrema, che spesso sfocia in privazione del significato stesso di ciò che scriviamo o, peggio, nel totale stravolgimento di ciò che intendiamo.
E quindi giù di incomprensioni che da lì scaturiscono, visto e considerato che chi legge non interpreta quella stessa serie di codici così come noi magari li interpretiamo.
È la crisi della comunicazione allo stato brado. Non politica o istituzionale, ma umana. Esseri umani che fanno fatica a parlarsi e a capirsi. Perché non parlano più.
In assenza della scrittura, o quando non ci va di fare nemmeno quello, inviamo sempre più spesso note vocali (“Ti mando un vocale / di 10 minuti / soltanto per dirti / quanto sono felice”). Con il risultato, anche qui, che non ci rendiamo conto che sempre di più stiamo comunicando con un oggetto che invia sms e/o WhatsApp, o con un microfono che registra la nostra voce e la invia al nostro destinatario.
Inviare note vocali. Inviare note vocali da 5 secondi per dire aprimi o sto arrivando. E inviare note vocali di 10 minuti per dire quanto sono felice o raccontarti la mia ultima notte fuori. Inviare note vocali vuol dire tu con il telefono in mano, un dito premuto su REC e la bocca rivolta al microfono per dare fiato e dire la tua. È brutto, lo è esteticamente e persino simbolicamente: l’orecchio non è alla cornetta per ascoltare. Sono io che parlo e basta. Tu ascolti, e non puoi fare altro. Poi, se mai, ribatti e rispondi. E in caso ascolto.
Comprendo la comodità delle note vocali, dei messaggini o dei whatsappini, di cui peraltro io stesso talvolta abuso, ma rileggendo queste parole di Camilleri ho riflettuto a lungo. Capisco anche la velocità di cui oggi ci nutriamo e la necessità di fare due cose in una, ma alle volte è proprio più facile telefonarsi di inviare un vocale.
Da ritardatario cronico, telefonarsi anziché mandare un nota è anche meglio perché invece di dirti che sto arrivando e inviarti un austero messaggio vocale che rischia di urtarti ancora di più, telefonandoti prendo tempo e in quel lasso di tempo ti dico che sto arrivando finché non mi vedi arrivare.
Abusare di messaggi vocali, WhatsApp e sms – rinunciare ovvero sia alle parole – annulla l’importanza che hanno le parole, i sentimenti ad esse associate, le sensazioni che derivano dal dialogo. Rischia di non rimanere più nulla.
E talvolta passano giorni che non si sentano amici cari e parenti, se non in questo modo. Persino del botta e risposta non rimane più niente, del contraddittorio, del diritto di replica. Tutto è azzerato. E si perde l’anima della conversazione.
C’è un amico e collega che regolarmente, ogni 3-5 giorni, mi scrive su Messenger Facebook (strumento che uso quasi solo per lavoro ormai) e si lamenta del fatto che io risponda telegraficamente. Lo fanno diverse persone. Due-tre parole, ok, va bene, vediamo, grazie.
Ma come mai non rispondi, non hai voglia di parlare, cosa c’è. No, non è che non abbia voglia di parlare, è che non voglio chattare (se non per più di 5 secondi, con chiunque, e a meno di condizioni particolari). Preferisco parlare. Dialogare. Non leggere interi papiri via WhatsApp, Messenger o altro.
Camilleri invita tutti a scrivere lettere, pensieri e sentimenti. Quanto ha ragione. Intanto però torniamo a chiamarci. Alziamo il telefono e chiamiamo. Telefoniamoci. Ora, non tra vent’anni. Anzi, lo dico proprio a te: alza il telefono e chiama.
Rinuncia alla pigrizia, alla pigrizia di dover parlare e aprire la bocca argomentando uno o più pensieri, alla paura di dover affrontare questo o quell’argomento, alla paura del giudizio altrui per il tuo stato d’animo, alla paura di vivere ogni singolo istante di questa vita, o alla paura che qualcuno dall’altra parte della cornetta non voglia risponderti.
Torniamo a comunicare da esseri umani. Riacquistiamo la parola. Servirà tempo, prendiamoci del tempo, ma torniamo a parlarci. Guardiamoci negli occhi e parliamo. “Ti mando un vocale / di 10 minuti / soltanto per dirti / quanto sono felice”. Ecco. Dimmelo a voce. O negli occhi.
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