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    Giovani arrabbiati, liste di proscrizione, intellettuali censurati: guasto è il mondo

    Credit: AP

    L’ultima volta che una generazione di ragazzi espresse una frustrazione analoga per la vacuità della propria esistenza fu negli anni Venti del Novecento

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 20 Ott. 2023 alle 07:00

    «Non possiamo continuare a vivere così. Il piccolo crac del 2008 ci ha ricordato che il capitalismo senza regole è il peggior nemico di se stesso: presto o tardi cade preda dei propri eccessi e chiede soccorso allo Stato. Ma se ci limiteremo a raccogliere i cocci e ad andare avanti come prima, possiamo aspettarci sconvolgimenti ancora più grandi negli anni a venire».

    Così scriveva Tony Judt in “Guasto è il mondo”, da molti considerato il suo capolavoro. E aggiungeva: «Per trent’anni ho sentito studenti che si lamentavano con me, che mi dicevano che “per voi era facile”: la vostra generazione aveva ideali e idee, credevate in qualcosa, eravate in grado di cambiare le cose. “Noi” (i ragazzi degli anni Ottanta, i ragazzi degli anni Novanta, i ragazzi degli anni Duemila) non abbiamo niente».

    «Per molto versi i miei studenti hanno ragione. Sì, per noi era facile, proprio come era facile, almeno in questo senso, per le generazioni prima di noi. L’ultima volta che una giovane generazione espresse una frustrazione analoga per la vacuità della propria esistenza e le la scoraggiante assenza di uno scopo nel proprio mondo fu negli anni Venti, e non a caso gli storici parlano in quel caso di una “generazione perduta”».

    Non sappiamo se quella attuale sia una generazione perduta: di sicuro, è una generazione arrabbiata. Ce l’ha con noi per il mondo dissestato che le stiamo lasciando in eredità, per le ingiustizie che affliggono la società, per la mancanza di lavoro e di prospettive, per la devastazione dei rapporti umani, per la crisi climatica che fa sì che ottobre ormai somigli a giugno, per il senso di sconfitta collettiva che si percepisce ovunque e per il palesarsi di rischi che mai avremmo immaginato che potessero entrare a far parte della nostra quotidianità. 

    Al che, vien da domandare a tutti coloro che non vedono l’ora di stilare qualche nuova lista di proscrizione, sommando lo stigma per presunte simpatie putiniane a quello per presunte simpatie per Hamas, ovviamente entrambe inesistenti: ma possibile che non vi rendiate conto del male oscuro che scorre nelle vene dell’Occidente? 

    Dalle banlieue alle piazze
    Era l’autunno del 2005, quattro anni dopo gli attentati dell’11 settembre, quando la tragica morte di due ragazzi, rimasti folgorati in una cabina telefonica a Clichy-sous-Bois, un comune vicino Parigi, mentre erano inseguiti dalla gendarmeria francese, innescò la rivolta delle banlieue, propagatasi a macchia d’olio fino a indurre l’allora ministro degli Interni, Sarkozy, a definire i giovani ribelli «racaille» (feccia), gettando benzina sul fuoco e rendendo bene l’idea di quanto fosse venuto meno lo “spirito repubblicano”, basato sull’integrazione dei figli delle ex colonie, che aveva animato la Francia a partire da De Gaulle. 

    L’estate successiva saremmo venuti a contatto con il disagio e la radicalizzazione del cosiddetto “Londonistan”, poi il terrorismo ha alzato il tiro, colpendo due volte Parigi (Charlie Hebdo e il Bataclan) e poi Bruxelles, Nizza e Berlino, per citare i casi più eclatanti. Gli autori degli attacchi erano per lo più ragazzi formatisi nelle nostre scuole, nelle nostre città, guardando i nostri stessi programmi, magari erano i nostri compagni di classe, i nostri vicini di casa: quasi nessuno di loro era venuto in Europa a bordo di un barcone o aveva respirato la disperazione dei propri Paesi d’origine. 

    Allo stesso modo, i giovani che gridano «Free Palestine», o addirittura inneggiano all’Intifada, come è accaduto ad esempio all’università di Berkeley, non possono essere derubricati alla voce “esaltati” o “ingenui” perché vorrebbe dire chiudere gli occhi di fronte a una polveriera pronta a esplodere nel cuore della nostra civiltà. 

    Se le manifestazioni pro-Palestina si susseguono, da Roma a Londra, passando per Milano, Parigi, l’università di Harvard e molti altri santuari del pensiero occidentale, significa che la rabbia per un sistema sempre più iniquo e disumano ha varcato da tempo le frontiere di Gaza o dell’Africa profonda. 

    L’altra globalizzazione
    E non deve sorprendere che alla base di questa furia dilagante ci sia l’altra globalizzazione, quella che si oppone da trent’anni alla globalizzazione dissennata delle merci e della finanza. È la globalizzazione del pensiero, delle idee, degli scambi culturali e della conoscenza: la stessa che ci ha portato in Erasmus e a viaggiare ovunque, fino a sentirci non più italiani, inglesi o francesi ma cittadine e cittadini del mondo, a casa in ogni luogo, partecipi del dolore e della sofferenza altrui.

    Questa generazione, anche grazie ai social network e alle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, ha la possibilità di dialogare ogni giorno con persone che vivono all’altro capo del pianeta: per questo non è indifferente, al punto che ha sentito il richiamo di un’adolescente svedese che l’ha posta di fronte al dilemma se avremo un domani, mentre i potenti continuano a riunirsi in conferenze dagli esiti risibili e le multinazionali ci prendono in giro con il “greenwashing”, tradendo tutti gli impegni assunti negli anni scorsi. 

    Questa generazione non si fida più della politica e vuole cambiare tutto, anche perché si rende conto che i decisori non si preoccupano del futuro ma solo del presente, dei propri voti e delle proprie carriere. 

    Valori perduti
    L’ultima follia, in ordine cronologico, è la scelta della Fiera del Libro di Francoforte di annullare la premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli in segno di solidarietà con Israele. Ebbene, se c’è una forma di offesa al popolo israeliano e al suo diritto di esistere, è questa. Perché l’Occidente non può comportarsi alla stregua dei regimi che giustamente depreca. Se vogliamo sconfiggerli, non possiamo pensare e agire come loro. 

    Il dissenso lo censurano i despoti, non le democrazie. Le democrazie esaltano le diversità, accettano le differenze e, soprattutto in un luogo simbolo della cultura, favoriscono il dialogo e il confronto. Se anche la Buchmesse, anziché schierarsi a favore della pace e contro la barbarie, sceglie invece uno dei due contendenti, accettando di fatto l’equazione secondo cui la Palestina sarebbe indistinguibile da Hamas, significa che abbiamo smarrito noi stessi. 

    E allora non ci resta che chiudere con un’altra citazione di Judt, forse la più significativa: «Siamo entrati in un’epoca di insicurezza: economica, fisica e politica. Il fatto che ne siamo in gran parte inconsapevoli non è di grande conforto: pochi, nel 1914, potevano prevedere il collasso completo del loro mondo e le catastrofi economiche e politiche che seguirono.

    L’insicurezza genera paura. E la paura – paura del cambiamento, paura del declino, paura degli estranei e di un mondo a cui non siamo abituati – corrode la fiducia e la dipendenza reciproca su cui si fondano le società civili». In effetti, prima dello sparo di Sarajevo eravamo convinti che la Belle Époque sarebbe durata in eterno. Peccato che stessimo ballando sull’orlo di un vulcano che ci avrebbe inghiottito per trent’anni, con un bilancio complessivo di oltre settanta milioni di morti.

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