La pandemia, come un docente severo in un seminario mondiale, ha cercato di insegnarci tante cose: un nuovo rapporto tra tempo e spazio; la consapevolezza che il mondo è davvero globalizzato; la differenza irriducibile tra necessario e superfluo; l’acuirsi delle disuguaglianze; il disagio degli anziani, dei clandestini, degli homeless; l’esigenza di uno Stato previgente e autorevole; la necessità di un’informazione né carente né ridondante; la fortuna di avere un welfare generoso; il primato della socialdemocrazia sul neo-liberismo; la stravaganza dei No vax. Moltissimo la pandemia ci ha insegnato sul lavoro e i suoi problemi. Negli ultimi vent’anni, mentre il progresso tecnologico faceva passi da gigante e altri Paesi d’Europa faceva ampio ricorso allo smart working, l’Italia procedeva a rilento e il lavoro agile aumentava al ritmo irrisorio di circa 30mila nuovi addetti all’anno.
Ci sono voluti due decreti perché, in una decina di giorni, i telelavoratori schizzassero da 600mila a 7 milioni. Se si fosse proseguito con il ritmo precedente, per raggiungere questo risultato ci sarebbero voluti 210 anni. Nel 1901 gli italiani erano 40 milioni e durante quell’anno lavorarono 70 miliardi di ore, oggi siamo 60 milioni e in un anno lavoriamo 40 miliardi di ore. Nel 2040 un microprocessore sarà centinaia di miliardi di volte più potente di quello attuale; la “nuvola” informatica avrà trasformato il mondo in un’unica agorà: tele-apprenderemo, tele-lavoreremo, tele-commerceremo, ci tele-divertiremo. Tele-ameremo. Queste previsioni fanno ipotizzare che nel giro dei prossimi vent’anni potremo produrre tutti i beni e i servizi che ci servono impiegando solo i tre quarti dell’energia umana usata oggi. Si impone, dunque, un quesito: come cambia una società fondata sul lavoro quando il lavoro viene a mancare?…
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