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    Non le basta vincere: Meloni vuole pure i pieni poteri per cambiare la Costituzione (di M. Ainis)

    La destra aspira a introdurre il presidenzialismo: un vecchio progetto che mai come stavolta è vicino a realizzarsi

    Di Michele Ainis
    Pubblicato il 4 Ago. 2022 alle 08:24 Aggiornato il 4 Ago. 2022 alle 08:38

    No, stavolta non è soltanto un’elezione. Non si tratta unicamente di votare per un nuovo Parlamento, che poi a sua volta voterà la fiducia a un nuovo esecutivo. Ora la posta in gioco è ben più alta, tocca il cuore stesso dello Stato. Presidenzialismo, ecco la parola. E dunque una Costituzione riscritta dalla testa ai piedi, come promette la destra guidata da Giorgia Meloni, vincitrice annunciata di questa tornata elettorale. Anzi un superpresidenzialismo, giacché nel 2019 Fratelli d’Italia ha raccolto firme nelle piazze attorno a una proposta estrema, secondo la quale il presidente della Repubblica presiede pure il Consiglio dei ministri.

    Non che l’idea sia nuova di zecca. In Assemblea costituente ebbe in Piero Calamandrei il più illustre paladino, con lo sguardo puntato sull’America. Non se ne fece nulla, perché i suoi colleghi temevano piuttosto il Sudamerica, avendo fatto esperienza del fascismo. E infatti negli anni successivi i fascisti del Movimento Sociale s’impadronirono di quella bandiera, sulla scia del gollismo che nel frattempo celebrava i suoi trionfi in Francia. Anche se i primi a proporre l’elezione diretta del capo dello Stato non furono i fascisti, bensì i monarchici, nel 1957. Un ossimoro, dato che il re non viene eletto. Ma l’Italia è terra d’assurdi e paradossi: non a caso avevano simpatie monarchiche i nostri due primi presidenti della Repubblica, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.

    Sarà per questo, sarà per una sfida al senso comune, che i campioni del presidenzialismo si rintracciano pure fra i partiti di sinistra. Due soli nomi: Bettino Craxi e Massimo D’Alema. Il primo sposò il modello presidenziale nel 1987, al congresso del Psi di Rimini, dopo averlo evocato già nel 1979, con la sua proposta di «Grande riforma». Il secondo presiedeva la Bicamerale che nel 1997 votò in favore d’un semipresidenzialismo alla francese, scartando il sistema parlamentare inglese del premierato, però subendo infine uno sgambetto all’italiana da parte di Silvio Berlusconi, che all’ultimo minuto ne affossò i lavori.

    Insomma, una vecchia storia, sia pure costellata d’insuccessi. Sicché non meravigliamoci se il presidenzialismo stavolta avrà successo, sotto gli auspici della destra e magari con la benedizione della sinistra.

    D’altronde noi italiani siamo presidenzialisti per vocazione, per aspirazione. Da una ricerca pubblicata dalla Nave di Teseo (Presidenti d’Italia) s’apprende che l’Amministrazione pubblica italiana ospita oltre 70mila presidenti, seduti sulle poltrone di tutti i nostri enti, portenti ed accidenti; tanto che per stipendiarli spendiamo 390 milioni di euro l’anno, cifra che supera il bilancio d’una grande città. E allora sarà forse questo l’argomento decisivo: con il presidenzialismo si risparmia. Ne paghi uno soltanto, gli dai tutti i poteri, sicché in ultimo dimagrisce anche lo Stato, oltre che la democrazia italiana.

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