Nell‘ambito della Belt and Road Initiative, inaugurata nel 2013 dal leader della Repubblica Popolare Cinese Xi Jimping, vi è forse un nuovo tassello: alla fine di aprile l’Arabia Saudita, maggiore esportatrice di petrolio, ha annunciato che c’è una trattativa in corso con Pechino, la maggiore importatrice della risorsa, per regolare le transazioni in yuan piuttosto che in dollari, valuta dominante da decenni. Attualmente, l’Arabia Saudita esporta il 25% del suo petrolio alla Cina, il cambio valuta aumenterebbe la posizione di Pechino, rendendola dominante. Washington minimizza la trattativa sostenendo che questi colloquii vanno avanti dal 2016 e non si sono mai tradotti in nulla di fatto.
Tuttavia, i cambiamenti di questi ultimi tempi potrebbero invertire la rotta che resero gli Stati Uniti il maggior partner occidentale della dinastia saudita, rotta intrapresa nel febbraio del 1945, quando il Presidente Roosevelt, di ritorno da Jalta e convinto dai suoi analisti dell’importanza strategica di quel paese allora desolato e desertico, incontrò il Re Saud a bordo della US Quincy. Da allora, eccetto significativi attriti (come la crisi petrolifera del 1973 a seguito della Guerra dello Yom Kippur), l’alleanza è stata durevole e proficua per entrambi.
Molto è cambiato in questi sei anni che oggi potrebbe davvero spostare l’asse del Golfo verso est, primo fra tutti la Presidenza Biden, che ha raffreddato i rapporti con il paese leader del GCC rispetto al suo predecessore. Improntando la sua politica estera al rispetto dei diritti umani, Joe Biden ha reso pubblico il rapporto CIA, secretato da Trump, in merito all’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, il cui mandante sembra proprio essere il principe ereditario Mohamed Bin Salman.
Inoltre, Biden ha fatto sapere che non avrebbe approvato ulteriori violenze in quello che è ormai il paese con la crisi umanitaria più grave del mondo, lo Yemen, dove Riyadh opera a supporto delle forze governative in opposizione alla fazione Houthi, appoggiata dall’Iran, storico competitor della monarchia saudita.
A proposito di Teheran, Riyadh – insieme a Tel Aviv – è notoriamente scontenta del fatto che Washington voglia tornare ad un accordo sul nucleare dopo che Trump era uscito dal precedente JCPOA. La stessa Teheran, storicamente diffidente nei confronti degli Stati Uniti – ricambiata – teme nuovi mutamenti di volontà del “Grande Satana” e si riavvicina ai colloqui di Vienna in maniera più cauta, complice anche una politica interna dove ora, a differenza del 2015, prevale la fazione degli hard-liners, capeggiati dal Presidente Ebrahim Raisi.
Contemporaneamente, per il vecchio adagio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, l’Iran dell’Ayatollah ha siglato un accordo con la Cina a marzo 2021. L’imponente agreement ha una durata di 25 anni e un valore di 400 miliardi di dollari. Teheran esporterà petrolio e Pechino investirà in infrastrutture e ricerca. Già nel 2020 la Cina era diventata il maggior partner commerciale iraniano, per un totale di oltre 73 miliardi. Non è il primo dei massicci investimenti nella regione operati dalla leadership di Xi. Importante è anche il rapporto instaurato con gli Emirati Arabi Uniti, che aspirano ad essere la Singapore del Medioriente, polo commerciale attrattivo e ponte fra le regioni del mondo in cui si trova.
Da questa prospettiva di visione viene automatico immaginare come Abu Dhabi non abbia potuto (né voluto) sottrarsi alla proposta, di fine 2021, dell’azienda di telecomunicazioni di Shenzen, Huawei, per potenziare la Tlc emiratina investendo in infrastrutture per il 5G. Altre partnership commerciali si stanno costruendo lungo il percorso, specificatamente nell’ambito del digitale.
Ciò è costato il rallentamento (se non l’abbandono totale) della trattativa con Washington per la fornitura dei caccia F35, dal valore di 50 miliardi di dollari. Secondo un commento del Financial Times di quei giorni, i paesi della regione temono il comportamento di Washington, soprattutto dopo il caotico ritiro dall’Afghanistan.
Le ultime tre amministrazioni statunitensi sono state piena espressione (con alcune eccezioni) di una cultura propendente all’isolazionismo, figlia di quel Presidente Monroe che nel 1821 inaugurò l’omonima dottrina che voleva gli Stati Uniti votati esclusivamente al loro continente.
L’anima statunitense è sempre stata dualista, lacerata nel dubbio fra isolazionismo e interventismo, risultando infine una potenza egemonica anomala che non vuole partecipare all’ordine del mondo da lei creato. Il Medioriente è stato il terreno fertile per tale dimostrazione di dualità. Tuttavia se ne possono trarre conclusioni ulteriori: se ad oggi si può dire che gli interventi in Afghanistan ed Iraq sono stati eufemisticamente fallimentari è proprio frutto della scarsa conoscenza statunitense di un territorio complesso, esteso e variegato come il sud ovest asiatico, definito da sempre per comodità come l’insieme dei Paesi arabi.
Da anni gli analisti mostrano grande perplessità per la limitatezza di tale definizione, che non tiene conto del fatto che nella regione i più emergenti sono proprio quelli che arabi non sono (Turchia, Israele ed Iran). Tale atteggiamento sembra figlio di quel concetto ben teorizzato dall’accademico Edward Said, l’orientalismo, ovvero quella percezione tutta occidentale che trova moderna origine nell’età dei lumi, secondo cui l’Oriente è una regione sottosviluppata e non avvezza alla civiltà occidentalmente intesa, di conseguenza visto come semplice da comprendere.
Esempi lampanti vi sono nella questione israelo-palestinese e nelle sue dirette ramificazioni, dove Washington, sotto l’amministrazione Trump, ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e dove il Patto di Abramo, nato per permettere agli USA di lasciare la regione in mano ai suoi alleati, ha avuto il contraccolpo di fratturare l’unica unità che rimaneva nel Medioriente: l’avversione nei confronti della politica di Israele.
Queste condotte, sommate e reiterate negli anni in forme diverse, hanno reso sgradita la figura degli Stati Uniti in Medioriente. A seguito del progressivo vuoto creato negli ultimi anni da Washington, Pechino ha trovato campo libero. Infatti nel 2016 è diventata il maggiore investitore della regione e da quando la BRI è stata inaugurata ha investito in Medioriente più di 123 miliardi di dollari.
A oggi, queste manovre stanno portando i loro frutti. Secondo gli ultimi report di Arab Barometer, la maggior parte dei cittadini mediorientali ha più interesse nell’intessere ulteriori legami con la Cina rispetto agli Stati Uniti. Un’altra ragione sottesa a tale inversione di rotta, oltre quelle geopolitiche ed internazionali, è proprio la delusione avuta con le primavere arabe, che non hanno portato né democrazia né benessere economico e si guarda alla Cina come ad un Paese autoritario ma in crescita economica. La Cina, inoltre, credendo nella relatività dei diritti umani, non chiede implementazioni in tal senso quando inietta grandi somme di denaro in un Paese, rendendo di fatto l’arbitrio dei governi mediorientali molto più libero.
Tutti questi fattori hanno portato paesi e popoli del Medioriente a cercare l’allontanamento da un partner non considerato più affidabile e lasciare il posto alla Cina. Alcuni però restano ancorati a Washington, cui devono molto, come Israele e i suoi nuovi partner commerciali, anche se in forma più lieve ed a tratti ambigua. Questi nuovi network potrebbero condurre ad una polarizzazione delle fazioni nella regione, che vedrà Pechino costretta ad uscire dai soliti schemi di ambiguità che l’hanno sempre caratterizzata in politica estera, per schierarsi apertamente a difendere quelli che sono degli ottimi partner commerciali e strategici.
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