Nel pieno di conflitti d’interessi e dilaniato dalla ingordigia, oggi Matteo Renzi è più attento a incassare denaro da privati che a salvaguardare l’interesse pubblico, occupato a intentare cause su cause (tra gli altri giornali, anche al nostro) convinto che sia possibile intimidire la stampa affinché non parli dei suoi affari, che sono anche i nostri, essendo un senatore della Repubblica.
La storia che vi raccontiamo questa settimana, e che leggerete nei dossier che seguono questo editoriale, rivela la ragnatela di affari e potere che ha portato Renzi alla presa di Firenze, alla scalata del Pd e alla conquista di Palazzo Chigi: una macchina “acchiappa-soldi” congegnata a suo uso e consumo. La Fondazione Open era l’architrave del sistema. L’unico intento: sostenere “Matteo Re” e acquisire potere, senza limiti, anche quando i tempi avrebbero suggerito maggiore prudenza.
Concordando via chat nomine pubbliche da destinare agli amici (come già fan tutti) e mettendo l’Italia in (s)vendita al miglior offerente. Così se tu mi dai un trecentomila può essere che quell’emendamento io te lo faccia passare. Magia. Lui, Renzi, la chiamerebbe l’arte di stare al governo, o di fare politica. Preferiremmo chiamarla per quel che oggi si rivela: una fabbrica di soldi gestita in nome del potere. Favorendo aziende private amiche, e anche multinazionali, le quali a loro volta donavano centinaia di migliaia di euro alla fondazione del premier in carica.Anzi, ed è questo il caso di British American Tobacco, oggi possiamo pure rivelare che gli stessi dirigenti dell’azienda scrivevano della necessità di finanziare Open come conditio sine qua non per accedere a Renzi.
Un “tubo digerente”, come loro definivano la fondazione, capace di “raccogliere” dagli sponsor 7,2 milioni di euro dal 2012 alla cessazione delle attività (di cui negli ultimi giorni rimanevano appena 400 euro, oltre a numerosi debiti da pagare), e di attingere al contempo denaro dalle casse del Pd per spese personali e private.
I “diari dell’avvocato Bianchi”, il legale di riferimento del giglio magico, delineano uno scenario inquietante. Era lui, sulla base delle indicazioni che arrivavano da Renzi, Lotti e Carrai, il perno di Open. Gestiva denaro e lo incassava anche personalmente per poi rigirarlo alla fondazione, come spiega lui stesso ai suoi colleghi di studio in uno dei suoi svariati memo. Suggeriva nomine per i Cda di Tim, Mps, e altro. Teneva i conti ed esigeva ricevute e fatture da chi ormai amministrava quella struttura come il bancomat di casa. Lesinava spese in uscita a fronte di chi gli diceva che per vincere, e mantenere il potere, serviva spendere.Ma la macchina era già fuori controllo. Le risorse negli anni scarseggiavano sempre più, e anche per questo si trattava con il miglior offerente. Gli incontri per ottenere donazioni si succedevano freneticamente. A un certo punto è Bianchi stesso che si lamenta con Lotti quando, parafrasando, gli dice che “questo” (Renzi, nda) “ha perso la testa”: 134mila euro per affittare un aereo privato e volare a Washington sembravano esagerati anche al dominus di Open.Ma sono gli ultimi colpi di coda dell’ex premier, che nel frattempo ha perso la carica, un referendum e trascinato il Pd al più basso risultato mai ottenuto. Con il timore di naufragare nell’irrilevanza politica.
Anche per questo mette in moto la dark room, una delle appendici più costose della fondazione, composta da una trentina di persone con l’intento di difendere se stesso e annientare gli avversari. I fondi per finanziarla? Sempre quelli. La storia di “MR”, come lo chiamano fra loro i sodali del Giglio magico, insegna che oltre la rilevanza penale esiste una partita morale e politica che Renzi ha perso ancor prima di iniziare a giocare. Una sconfitta con cui ora deve fare i conti, da solo in mezzo al campo.