È il 26 giugno del 2018, Argentina contro Nigeria. All’albiceleste serve una vittoria per strappare il biglietto per gli ottavi di finale e scongiurare così un’eliminazione anticipata dal mondiale. Minuto 86’, con il risultato bloccato sul pareggio, Rojo realizza il goal decisivo consegnando all’Argentina il biglietto per la fase successiva del torneo. Maradona è in tribuna quel giorno, e dalle prime puntuali inquadrature della regia si capisce come sia particolarmente su di giri. Un’euforia che culmina al momento del gol della vittoria: occhi fuori dalle orbite, braccia incrociate sul petto come in una seduta spiritica e dito medio ad alcuni tifosi avversari seduti qualche fila più giù.
Il giorno dopo si saprà anche di un malore, confermato da uno spietato video in cui si poteva vedere Diego barcollare in palese difficoltà. Ecco, in quel momento in molti lo hanno probabilmente pensato. Magari non lo hanno detto a nessuno, con quel senso del pudore che solo le grandi blasfemie possono suscitare, ma lo hanno pensato: Maradona è morto. Questo non può essere lui. Smettete di inquadrarlo, salvateci i ricordi.
L’impossibilità di rassegnarsi all’idea che quel signore provato dalla vita, fosse quel campione di cui ci siamo innamorati tutti o quasi. Quel “Pibe de oro” che tra gli anni ’80 e ’90 si è caricato sulle spalle due popoli, quello argentino e quello napoletano, che di motivi per fare festa ne avevano davvero pochi.
Chi segue il calcio in maniera passionale sa benissimo come sia sempre stato difficile raccontare Maradona senza flirtare col misticismo, e oggi che Diego se ne è andato per davvero appare francamente impossibile. L’eterno dilemma causato dall’impossibilità di scindere la “trinità” del diez argentino: parlare solo del calciatore sarebbe riduttivo, parlare solo dell’uomo sarebbe deprimente e parlare solo del “D10s” sarebbe follia.
C’è chi dice sia stato il più grande di sempre, e probabilmente lo è stato. Il più grande non tanto per capacità o gesti tecnici, forse accostabili a quelli di altri (pochi) grandissimi, ma per la capacità di saper incarnare i sogni e le debolezze della gente, del popolo.
Invincibile con la palla al piede, ultimo degli ultimi nella vita. Gigante e nano, coraggioso e pavido, carismatico e fragile. Ogni tocco di palla, rigorosamente mancino, era come una carezza sul volto di tutti quelli che provavano a sognare nonostante tutto.
La povertà delle periferie campane, così simili a quella baraccopoli da cui veniva lui, scacciata a colpi di scudetti. Il dramma delle Falkland “vendicato” con due gol all’Inghilterra consegnati alla storia: la mano de Dios e gli undici tocchi di quel Barrilete Cosmico (aquilone cosmico, così lo aveva chiamato il telecronista Victor Hugo Moralez durante la telecronaca), arrivato da chissà quale pianeta.
Nel ricordarlo a poche ore dalla sua scomparsa, risulta quindi difficile riuscire a separare la gioia per le sue gesta più leggendarie da quel senso di malinconia per un uomo che è riuscito a scappare da ogni difensore, ma non dal peso di essere Maradona. La triste ironia dell’atleta capace di regalare gioia a tutti, tranne che a se stesso, assediato dall’amore, spesso ossessivo e invadente, che noi tutti avevamo non tanto per lui, ma per quello che il Maradona simbolo, ha rappresentato nelle nostre vite.
Probabilmente anche oggi, nel vederlo andare via così all’improvviso, non stiamo neanche piangendo l’uomo. La parte razionale del nostro cervello ha probabilmente subito realizzato che, con quella vita sul groppone, era improbabile che lo aspettasse un’esistenza particolarmente longeva. Probabilmente stiamo solo piangendo l’ennesimo triplice fischio, il nostro. Il famoso arbitro cornuto che ci ricorda che tutto finisce, che niente dura per sempre e che, come cantano i Nomadi, anche “Dio(s)” è morto.
Perdonaci Diego, per troppo tempo ti abbiamo strattonato per la maglietta come solo i difensori più insopportabili sanno fare. Ti abbiamo venerato come un Dio, ma proprio come i peggiori fedeli, ci siamo ricordati di te solo a Natale. Ci lasci più soli. Proprio come abbiamo fatto noi tante volte. Sì, perché proprio come in quell’Argentina-Nigeria di qualche anno fa, abbiamo spesso preferito girarci dall’altra parte. La nostra fortuna, però, è che ci basterà rivederti palleggiare sulle note di “Life is life” per sapere che, no, non era un sogno. La sfiga di Maradona è stato non avere un Maradona da guardare allo stadio.
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