Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Politica
  • Opinioni
  • Home » Opinioni

    Non lo confesseranno mai, ma i grillini sono terrorizzati dopo la sconfitta in Sardegna

    Beppe Grillo e Luigi Di Maio, rispettivamente garante e capo politico del M5S. Credit: ANSA/ETTORE FERRARI

    Diranno che il voto locale ha logiche e dinamiche completamente diverse, che non si possono confrontare elezioni regionali e politiche, daranno la colpa alle "accozzaglie", al candidato debole, al Padre eterno. Ma la verità è che l'intero sistema M5S oggi sta collassando. L'analisi post-voto di Lorenzo Tosa, ex responsabile comunicazione dei Cinque Stelle in Liguria

    Di Lorenzo Tosa
    Pubblicato il 25 Feb. 2019 alle 18:50 Aggiornato il 27 Set. 2019 alle 15:32

    Non lo confesseranno mai, diranno che il voto locale ha logiche e dinamiche completamente diverse, che non si possono confrontare elezioni regionali e politiche, daranno la colpa alle “accozzaglie”, al candidato debole, al Padre eterno. Ma la verità è che sono terrorizzati. Il crollo in Abruzzo è stato un campanello d’allarme, quello in Sardegna una Waterloo.

    In meno di un anno, il Movimento 5 Stelle nell’isola è riuscito a dilapidare quasi due terzi del proprio consenso: dall’oltre 42 per cento delle politiche all’attuale 11 per cento,: quasi il 30 per cento in meno.

    Se non è un record, poco ci manca. Di sicuro è la debacle più eclatante che il M5S abbia mai registrato a livello locale e la pietra tombale su ogni ambizione di governo presente e futura.

    Consapevoli di andare incontro a uno schianto di proporzioni epocali, Di Maio e i suoi colonnelli hanno preferito puerilmente disinteressarsene, prendendo preventivamente le distanze dalla Sardegna e rinunciando a fare campagna elettorale, credendo che questo avrebbe potuto magicamente far scomparire il problema.

    La realtà è che, allo stato attuale, sarebbe potuto calare sull’isola il leader in carica, Di Battista, Beppe Grillo o David Copperfield senza che questo avrebbe spostato di un decimale un esito tanto drammatico quanto prevedibile

    Insieme al carneade Desogus, affonda una certa idea di Movimento pragmatico e governista che Casaleggio Jr. aveva teorizzato a partire dal post-crollo delle europee 2014 e, con ancora più impeto, dalla morte del padre Gianroberto, nell’aprile 2016: un soggetto politico in bilico tra un partito, un’azienda e una setta, profondamente verticistico, a democrazia limitata, dal processo decisionale monodirezionale e interamente costruito attorno al consenso che del Movimento degli esordi ha conservato, tutt’al più, il simbolo e uno zoccolo duro di seguaci pronti a morire per Danzica.

    L’architrave di questa struttura poggiava sostanzialmente, e poggia ancora (per poco?), su tre colonne portanti: la comunicazione, affidata a Rocco Casalino, e la parte politica, incarnata da Luigi Di Maio, mentre Casaleggio Jr. ha tenuto per sé la cabina di comando, la piattaforma esecutiva, e – cosa ancora più importante – il logo, strappandolo, dopo una lunga faida interna, all’ex amico Grillo. Che non a caso è pronto a fare il grande salto fuori dal Movimento 5 Stelle, consumando un divorzio epocale che da anni è qualcosa più che semplice fantapolitica.

    È questo intero sistema che oggi sta collassando sotto il peso di anni di contraddizioni e promesse non mantenute, messe a nudo in modo drammatico dall’esperienza di governo. In molti, dentro e fuori dal Movimento, attendevano il cadavere dei 5 Stelle sulla riva del fiume, ma nessuno si aspettava che sarebbe arrivato così presto (e con queste proporzioni).

    Vero è che il voto locale ha meccanismi e caratteristiche autonome rispetto al voto nazionale e che, per la camera ardente, bisognerà attendere quantomeno il 26 maggio, data delle europee. Ma se l’analisi della sconfitta – anzi, della disfatta – da parte di Di Maio & C. si limiterà, ancora una volta, a una auto-assolutoria difesa delle scelte fatte e un dito puntato verso le “liste-accozzaglie” (come già qualcuno ha ventilato, vedi l’ex iena Dino Giarrusso), questa volta il rischio è che sarà la stessa base ad alzare la voce.

    Sono loro, gli elettori del M5S, chi su questo progetto hanno investito tempo, fiducia e speranze, a meritare un’analisi più onesta e coraggiosa, quell’autodafé che per anni è stato un vero e proprio tabù.

    Il voto in Sardegna, più ancora di quello in Abruzzo, rischia di diventare lo spartiacque di un’intera stagione politica e un vero e proprio de profundis per Luigi Di Maio, la cui carriera politica potrebbe essere ricordata come la più precoce e rapida della storia repubblicana.

    Forse quando Salvini, in estate, giurava che avrebbero governato 30 anni, si era dimenticato di precisare che parlava a titolo personale. Eppure fa di tutto per ricordarcelo puntualmente ad ogni tornata elettorale.

    Cosa resterà del M5S, una volta che sparirà definitivamente, quantomeno come ubriacatura collettiva e di massa? Politicamente quasi nulla. Incalcolabili i danni civili e culturali che si lascerà alle spalle e lascerà a un Paese diventato, nell’ultimo decennio, più rabbioso, ignorante, più complottista, manettaro, forcaiolo, spaventato, anti-scientifico.

    A rivederlo con un minimo di distacco, il Movimento 5 Stelle è stato senza dubbio il più subdolo, perverso e, se vogliamo geniale, esperimento sociale e politico che mente umana abbia mai concepito. Una specie di Frankenstein della politica. E, come tutte le creature nate in laboratorio, è stato costruito attorno un sistema di regole ferree, assolute, che assomigliano a veri e propri mantra: i due mandati, le dimissioni per gli indagati, le restituzioni, il rifiuto della forma partito, la stessa democrazia diretta. Regole che, se all’inizio sono state la vera forza elettorale de Movimento, hanno finito per diventare una gabbia etica e ideologica alla quale sottostare, pena il tradimento dei principi.

    Però, attenzione. Solo uno sciocco o un ingenuo può davvero credere che slogan intrinsecamente, geneticamente, populisti che potevano andare bene per un V-Day potessero essere replicati, identici, una volta in Parlamento o, peggio ancora, al governo. Chiunque dotato di un minimo di onestà intellettuale e visione politica sapeva che una sorta di tagliando fosse in qualche modo necessario per adeguare la fantasia alla realtà.

    Il problema è che i vertici di questa nuova Spa del consenso non si sono limitati a darsi una struttura, ma hanno stravolto da cima a fondo il dna stesso del M5S, vendendo, anzi svendendo, la propria anima.

    Uno dietro l’altro sono venuti giù tutti i miti fondanti e fondativi dei 5 Stelle, fino all’ultimo caso eclatante della mancata autorizzazione a procedere a Salvini. E presto potrebbe toccare al totem, fino a poche settimane fa considerato intoccabile, dei due mandati.

    Non è un problema di selezione dei candidati, né di capacità di penetrazione sul territorio, ma di credibilità stessa della classe dirigente. Una volta svanito il mito dell’onestà e della diversità, il Movimento 5 Stelle appare soltanto per quello che è sempre stato: un esercito di ex disoccupati, precari e partite Iva in bolletta che promettevano di voler cambiare il mondo e, dopo un decennio, hanno finito per cambiare solo le loro di vite, mentre tutto intorno il Paese crollava.

    LEGGI ANCHE: Lorenzo Tosa: “Nel M5s democrazia zero, ecco perché lascio il movimento che ha fatto da apripista al fascismo”

    LEGGI ANCHE: “Io, ex M5S, vi dico che se il kit segreto di Casalino è finito in mano ai media è stato per dare un chiaro messaggio interno”

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version