Con buona pace di Gianluigi Paragone e degli altri esponenti del M5S che stanno abbandonando la nave che affonda, e sulla quale per esplicita scelta dei vertici non sono state previste scialuppe di salvataggio, non saranno loro a provocare l’eventuale crisi di governo. Parliamoci chiaro: il M5S non esiste più da tempo. Ormai altro non è che un riottoso gruppo parlamentare, con un capo politico, Di Maio, inviso ai più e apertamente osteggiato, e questa è una delle novità più interessanti di questo inizio d’anno, anche da personaggi di spicco come Di Battista, con cui un tempo sembrava andare d’amore e d’accordo.
Il M5S non può aprire alcuna crisi, per il semplice motivo che non esiste una direzione politica in quel magma indistinto e ormai in guerra con se stesso, e chiunque dovesse assumere un’iniziativa tanto impegnativa, fosse anche lo stesso Di Maio, rischierebbe la scena fantozziana di ritrovarsi con il volante in mano mentre il resto della carrozzeria è andato da un’altra parte.
Su dossier come Autostrade e Mes, dunque, per quanto scottanti, Conte può dormire sonni tranquilli, e lo sa. Al tempo stesso, non è da escludere la tesi secondo cui fino al 27 gennaio, ossia il “day after” del voto in Emilia Romagna e in Calabria, le bocce rimarranno ferme. Assisteremo a un mese di guerriglia ma nulla più, in quanto tutti sanno di non potersi assumere la responsabilità, prima di quella data, di trarre le conclusioni di un voto che per esplicare i propri effetti deve prima aver avuto luogo.
Certo, c’è sempre l’incognita Renzi: la mina vagante della legislatura, artefice dell’esecutivo in estate ma pronto a cannoneggiarlo fin dal giorno dopo la sua travagliata nascita, dapprima fondando un partito non molto significativo dal punto di vista dei consensi ma decisivo sul piano degli equilibri parlamentari e poi dando vita a un progressivo logoramento che ha nella posizione intransigente sul reddito di cittadinanza e sulla riforma della prescrizione targata Bonafede i propri picchi.
Ora, va detto che i 5 Stelle stanno facendo di tutto per segare il ramo su cui sono seduti, dato che il taglio dei parlamentari e la riforma Bonafede altro non sono che mine poste sotto l’esecutivo, in nome di un’ideologia anti-istituzionale e giustizialista che è quanto di più incompatibile possa esistere con una sana cultura di governo di matrice riformista come quella che, invece, sembra aver acquisito il presidente Conte nei diciotto mesi trascorsi a Palazzo Chigi. E questa è la chiave di volta della legislatura in corso e dell’immediato futuro della politica italiana.
Se c’è un elemento di enorme squilibrio, in grado di destabilizzare le forze politiche al punto di provocare il terremoto decisivo per le sorti del governo, questo, per assurdo, è proprio Giuseppe Conte. Personaggio enigmatico, di cui fino a un anno e mezzo fa in pochi conoscevano l’esistenza, inserito da Di Maio all’interno della compagine di governo ideale dei 5 Stelle, raffinato giurista e personalità in grado di adattarsi a situazioni opposte, dando prova di una duttilità politica che non si vedeva dai tempi della miglior scuola dorotea, il nostro è riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo piano su cui nessuno, ancora ai tempi del governo giallo-verde, avrebbe scommesso un centesimo.
Son bastati pochi mesi da presidente vero, senza più il condizionamento asfissiante di Salvini, perché Conte riuscisse nell’impresa di porre in secondo piano tutti gli altri attori della sua variegata e complessa maggioranza, Renzi compreso, fino a indurre Zingaretti a candidarlo, di fatto, al ruolo di novello Prodi.
E qui bisogna aprire una parentesi sul bonario professore di Scandiano e rendersi conto che l’esempio di Prodi non è casuale, dato che, come tutte le persone miti e riflessive, anche il costruttore dell’Ulivo, proprio come il suo maestro Andreatta, è sempre stato un uomo del dialogo e del confronto ma non per questo ha mai rinunciato a esprimere la propria visione del mondo, pratica che in politica è sempre divisiva e, talvolta, persino lacerante.
Lo stesso vale per Conte, la cui collocazione nel campo del centrosinistra mette, di fatto, fuorigioco Di Maio, non a caso irrequieto come non mai e convinto di ciò che già sapeva quest’estate, ossia che la mossa di Grillo di aprire al Pd e dar vita a questo bizzarro esecutivo giallo-rosso fosse, in realtà, un abile stratagemma per metterlo, progressivamente, da parte. Un accantonamento lento ma inesorabile, basato su una difesa d’ufficio e su uno scaricamento di fatto, in netto contrasto con le ambizioni chigiane dell’attuale ministro degli Esteri e, soprattutto, col suo disperato bisogno di occupare il centro della scena, anche per non perdere ulteriore terreno all’interno di un soggetto che ormai, come detto, lo vive con evidente fastidio.
Conte, facendo il suo senza infamia e senza lode, utilizzando toni e metodi in sintonia con quelli di Mattarella e sfoderando la pazienza titanica propria degli statisti pugliesi (il riferimento a Moro, sul punto specifico, non è casuale), si è posto come punto di riferimento del vasto fronte, che va dalle Sardine all’ala zingarettiana del Pd, che sta cercando di costruire un’alternativa al trumpismo lepenista incarnato dal duo Salvini-Meloni.
In pratica, il pacato Conte, con la sua sobria fermezza, la sua resilienza dai tratti, per l’appunto, prodiani e la sua capacità di occupare la scena pur restando apparentemente nell’ombra, ha risposto dalle colonne di Repubblica all’invito che Zingaretti gli aveva rivolto da quelle del Corriere, passando il Rubicone e dicendo con chiarezza di essere pronto a fare la sua parte. Magari non alla guida di un partito, come mai lo è stato Prodi, ma di una coalizione sì. Una coalizione composta da una parte del Partito democratico, dall’ala sinistra dei 5 Stelle (anche la mossa dell’ex ministro Fioramonti è tutt’altro che casuale), dal civismo delle Sardine e del vasto fronte ambientalista rivelato dai Fridays for Future e da una solida area cattolica che si sta già organizzando intorno a ulivisti mai pentiti come Magatti e Zamagni.
Il che rende sostanzialmente inutile un partito ormai anacronistico come il Pd, nato in tutt’altra stagione e con basi troppo fragili per resistere a un cambiamento d’epoca di questa portata, e ancor più i 5 Stelle, destinati a implodere per il semplice motivo che anche la distopia post-ideologica, nell’era di Trump e della radicalizzazione del dibattito pubblico a livello globale, non ha più alcuna ragione di esistere né una base elettorale disposta a sostenerla.
L’unica incognita, a questo punto, è il Quirinale, il sogno inconfessabile del tessitore di Volturara Appula. Le vicende dei prossimi mesi ci diranno se il nostro potrà ritagliarsi un ruolo da demiurgo in stile Moro e Andreatta o se, com’è probabile, sarà chiamato a scendere in battaglia in prima persona.
Qualora le cose dovessero andar bene, in Emilia Romagna e non solo, la coalizione di Conte potrebbe nascere in manierà incruenta. Qualora dovessero andar male, scorrerà molto sangue ma Conte, sia pur con gli abiti macchiati, resterà sul proscenio. Virtù nascoste dei cavalli di razza dorotei che le circostanze della vita hanno reso morotei.