Ieri due contagiati su tre, sul totale dei contagiati in Italia erano in Lombardia. La Lombardia è il territorio del paese in cui sono concentrati più della metà dei contagi totali, più della metà dei morti, più della metà delle terapie intensive. Questa non è certo una colpa dei lombardi, il loro dramma, semmai. Non è nemmeno colpa dell’assessore Gallera, anche se urge un buon professore che con la lavagnetta gli spieghi cosa significa R0.
Ma visto che si avvicina la scadenza del 3 giugno, e che questa difformità è sotto gli occhi di tutti, è del tutto evidente che se i numeri e le proporzioni restano queste, la Lombardia dovrà mantenere un regime di restrizione più forte del resto del paese. Perché non possono accadere due cose che sarebbero entrambe sbagliate: né che il resto dell’Italia resti ferma, o in un regime più restrittivo per attendere la Lombardia. Né che il resto dell’Italia sia messa a rischio con una riapertura indifferenziata perché qualcuno pensa che questo possa essere un affronto per la Lombardia.
Purtroppo questa seconda reazione, per quanto possa sembrare strano, è quella che alcuni amministratori e politici lombardi hanno espresso negli ultimi mesi: “Non è possibile che un avvocato Lombardo sia costretto a restare fermo – ha detto per esempio Matteo Salvini da Massimo Giletti – mentre un avvocato di Reggio Calabria può riprendere a lavorare”. E perché mai, mi chiedo? È ovvio che possa farlo.
Quando il terremoto dell’Umbria (o dell’Emilia Romagna, o dell’Aquila) hanno fermato quelle regioni, a nessuno è saltato in mente di dire: se si ferma il tribunale in Umbria deve fermarsi anche a Milano. È evidente che i provvedimenti restrittivi non sono una punizione ma una soluzione. Sarebbe come dire che Fontana volesse punire Codogno quando ha disposto la zona rossa intorno alla cittadina lombarda. Quindi bene le riaperture asimmetriche: poi, quando il tasso di contagio sarà sceso anche il Lombardia, immediatamente deve essere consentito, anche a quella regione, di aggiungersi alle altre.