Maltempo in Liguria: così Genova, nel silenzio, muore
Per capire cosa sta accadendo in queste ore a Genova e in Liguria bisogna concentrarsi sulle parole. E quelle che più ti restano addosso in questa emergenza senza fine hanno tutte a che fare con scenari marziali. “Stiamo gestendo questa crisi come se fossimo in stato di guerra”, ha dichiarato nella serata di ieri, lunedì 25 novembre, il governatore della Liguria Giovanni Toti. Che ha chiosato: “Questa è una Stalingrado”.
Può sembrare un paragone fuori luogo, ma è esattamente quello che ha pensato ogni singolo genovese o savonese, intorno alle 21.30 di ieri, quando si è diffusa la notizia shock della chiusura del raccordo tra la A26 e la A10 a causa delle condizioni critiche dei viadotti Fado Nord e Pecetti Sud. Tradotto? Dopo il crollo di domenica del viadotto di Madonna del Bosco sulla A6 in direzione Torino, è stato cancellato di colpo e senza preavviso alcuno l’unico altro collegamento rimasto in piedi tra la Liguria e il nord.
Se a questo quadro già di per sé drammatico aggiungi che l’ultimo tratto della A10 è ancora tranciato in due dalla tragedia del ponte Morandi, lo scenario della viabilità è prossimo all’apocalittico, con migliaia di tir e auto costretti a riversarsi a ridosso del centro città per poter proseguire la propria corsa verso Milano, Torino, il nord Italia e la Svizzera.
Per giunta, dovrebbero farlo attraverso un tratto – quello della A7 – che è a tutti gli effetti il più vecchio, obsoleto, stretto e decadente dell’intero comparto autostradale ligure. È la paralisi totale, insomma.
Se il Ponte Morandi è stato il nostro 11 Settembre, quello di ieri sarà ricordato come il giorno in cui la Liguria è diventata ufficialmente un’isola. Bloccata in gabbia in tutte le direzioni e praticamente in ogni senso di marcia.
Il presidente dell’Autorità portuale suona le campane a lutto: “Così il porto non resisterà più di una settimana”. Non si contano le imprese a rischio chiusura: centinaia di aziende che avevano resistito al crollo del Morandi e continuato stoicamente a investire in questa terra fragile e martoriata questa volta sono pronte ad alzare bandiera bianca. È un grido di dolore che risuona fortissimo: “Noi così moriamo”. E, insieme alle imprese, è destinata a morire l’intera regione.
Non è più questione di anni o decenni ma di mesi, forse settimane. Uno scenario da incubo che dura il tempo di una notte. Poi, intorno alle 10.30 di stamattina arriva la notizia: la A26 in direzione Alessandria sarà riaperta parzialmente con una sola corsia. I disagi non finiscono qui, ma quantomeno si apre uno squarcio nella cortina di cemento marcio e corroso in cui la Liguria è immersa lungo gli Appennini, da est a ovest, per sessanta chilometri.
Restano in piedi tutte le enormi criticità di un’unica grande emergenza che non è più episodica ma sistemica, permanente e si dipana in mille rivoli: maltempo, dissesto idrogeologico, viabilità, isolamento, crisi economica, fughe di giovani e lavoratori. Sono come i tasselli di un grande puzzle. Uniscili, e quello che ti si compone davanti è la regione più anziana d’Europa. La meno innovativa, nonostante non manchino le singole eccellenze (vedi IIT e il comparto tecnologico). La meno attrattiva, nonostante potenzialità turistiche di livello assoluto. La meno produttiva, nonostante un saper fare che ha pochi eguali in Italia. E, sullo sfondo, un porto che fino a meno di un ventennio fa era il principale hub europeo e oggi si è visto scavalcare non solo dai grandi porti europei ma anche da Trieste e, in proporzione, anche da città come Livorno, Gioia Tauro, Ravenna. Senza parlare dello scenario globale, dove ormai siamo quasi formiche.
C’era tutto questo nella mente dei genovesi e dei savonesi ieri incollati davanti alla tv e ai social cercando di immaginare che ne sarebbe stato da domani del loro lavoro, della loro vita, dei loro figli. E due stati d’animo che si fondevano e si mescolavano insieme: smarrimento e rabbia.
Smarrimento per aver scoperto che, a distanza di un anno e quattro mesi dalla tragedia del ponte Morandi, abbiamo continuato come se nulla fosse a viaggiare ogni giorno su ponti, viadotti e autostrade che, da una sera all’altra, sono stati segnalati dalla procura come fortemente pericolanti e chiusi da Società Autostrade l’istante successivo. Per un anno e mezzo abbiamo continuato a fidarci di chi avrebbe dovuto raddoppiare, triplicare la manutenzione sul resto della tratta. E invece una sera di fine novembre apparentemente come tante altre ci informano che l’autostrada resterà chiusa, che abbiamo rischiato la vita e l’abbiamo fatta rischiare ai nostri figli, e che da domani saremo ufficialmente e definitivamente isolati dal mondo.
E c’è la rabbia nei confronti di un ente gestore che non si è mai assunto fino in fondo la responsabilità per la tragedia del Morandi e che molti di noi hanno anche difeso dalla furia giustizialista di chi avrebbe voluto l’immediata revoca. Oggi anche i più garantisti hanno ufficialmente perso la pazienza.
Genova in questi anni è ripartita da infinite sciagure e innumerevoli catastrofe. Ha pagato un prezzo altissimo alla fragilità del territorio con cinque alluvioni nel giro di vent’anni (e decine di morti), ma ha saputo sempre rialzarsi. Si è svegliata, una notte, con una motonave da 40mila tonnellate finita contro una torre piloti in porto, e anche lì morte e disperazione, ma ha saputo rimettersi in piedi. Ha visto un viadotto autostradale crollare su stesso, trascinando con sé 43 vite, ma anche in quel caso è riuscita miracolosamente a sopravvivere. Oggi non siamo qui a contare i morti, ma assistiamo inermi a un dramma nuovo – e per certi versi inedito – che non fa rumore. E proprio per questo rialzarsi questa volta sarà più difficile.
Avremo bisogno di un piano straordinario per la Liguria – come già annunciato dal ministro dei Trasporti De Micheli – di soldi, risorse, capacità, competenze, le migliori energie di questo Paese. Ma avremo bisogno soprattutto che non si spengano riflettori su questa meravigliosa città e su questa regione. Perché è nel silenzio che Genova muore.