Anni fa andava molto di moda nei faccia a faccia chiedere ai vari candidati chi avrebbero inserito nel proprio Pantheon. In quelle occasioni i vari candidati si cimentavano nel tirare fuori i nomi più disparati, strizzando l’occhio talvolta a un elettorato più tradizionalista, altre a uno più innovativo, altre ancora provando a differenziarsi dal proprio bacino.
Risultava una domanda da un lato intima, che permetteva di tirare fuori un proprio mito personale, dall’altro strategica, perché permetteva di creare un dibattito o di cercare di aprire un dialogo con una determinata fetta di elettorato.
C’è un nome che tuttavia non è mai uscito, che rimane confinato nei libri di storia e che forse nessuno farebbe mai, ma che forse, soprattutto dopo una contesa come possono essere le elezioni, si impadronisce di parte dell’animo umano. Quell’uomo si chiama Fabrizio Maramaldo, ed è vissuto nella prima metà del XVI secolo divenendo famoso soprattutto per un episodio che ha trasformato il suo nome in sinonimo di gratuita volontà di sopraffare chi già è stato sconfitto. Tale episodio, vuole la tradizione, si consumò nel 1530 in seguito alla battaglia di Gavinana, quando Maramaldo, in servizio presso le truppe del Sacro Romano Impero, non contento di avere la vittoria in tasca volle infierire sul già ferito Francesco Ferrucci, che guidava i fiorentini e che gli avrebbe risposto “vile, tu uccidi un uomo morto”.
Non sappiamo quanto ci sia di vero e quanto sia stato ricamato dagli storici successivi, tant’è che la storia ci consegna di Maramaldo un’immagine negativa, al punto che vocabolario Treccani alla mano, “maramaldo”, con la emme minuscola stavolta, è sinonimo di “uomo malvagio, spavaldo e prepotente soprattutto con i deboli, gli indifesi, gli sconfitti”. Non entreremo qui in un dibattito storico sul fatto che tale fama sia meritata o meno, ma sappiamo che l’inno di Mameli, in una di quelle strofe che non trovano spazio nella maggior parte delle sue esecuzioni ufficiali, ci fornisce come esempio da seguire la vittima più illustre di Maramaldo, quel Francesco Ferrucci alias Ferruccio di cui, dice Mameli, ogni uomo “ha il core, ha la mano”.
Ma che ne dica il nostro inno, troppe volte ancora dopo un confronto, soprattutto elettorale, non riusciamo a non abbandonarci a quel sentimento di pancia di accanirci sullo sconfitto, in maniera appunto maramaldesca. E giù a infierire con i promotori del referendum meno votato d’Italia, col partito crollato in tutta Italia, col candidato che ha preso zero voti. In tempi in cui la politica sembra non andare più di moda e in cui il voto rischia concretamente di trasformarsi in un’abitudine per un gruppo ristretto, chiunque partecipa, anche con scarsi risultati, dovrebbe vedersi il merito di aver provato a rivitalizzare un dibattito pubblico altrimenti assonnato e stantio. E quali che siano le nostre idee, chi vince farebbe bene a godersi la vittoria senza tirare fuori il proprio Maramaldo interiore: lo stile è importante quando si perde, ma anche quando si vince.