Il problema non è Letta e neanche il Partito Democratico. Il punto è che Enrico Letta ha avuto un’occasione d’oro e l’ha sprecata. Lo scorso autunno, infatti, il nostro aveva avuto due meriti indiscutibili: farsi eleggere alla Camera nel collegio di Siena e stravincere le amministrative nelle principali città italiane, offrendo l’immagine di un partito aperto e in grado di costruire una coalizione ampia e ben assortita. A quel punto, sarebbe servito un congresso per ridefinire il progetto politico del Pd e mettere nero su bianco proposte come la dote da attribuire ai diciottenni, previa tassazione sulle successioni oltre i 5 milioni di euro: un’idea che indica un chiaro approccio alla cosa pubblica. Insomma, per citare Nanni Moretti, avrebbe dovuto continuare a dire «qualcosa di sinistra».
Peccato che, dal Quirinale in poi, il nostro sembra sia, invece, caduto vittima di un sortilegio. È in quella settimana, difatti, che i rapporti con Conte cominciano a incrinarsi, quando l’avvocato non vuol saperne di Draghi e subisce, non senza fastidio, la marea parlamentare che monta e chiede a gran voce la riconferma di Mattarella. Il colpo di grazia, tuttavia, avviene con lo scoppio della guerra in Ucraina, quando Letta e Conte si trovano su fronti sostanzialmente opposti, con il primo ultra-atlantista e schierato senza remore dalla parte dell’invio di armi e del boicottaggio totale nei confronti della Russia e il secondo assai scettico in merito a un’escalation che rischia di condurci a un punto di non ritorno.
Una volta bruciati i vascelli alle spalle, è chiaro che al Partito Democratico non sia rimasta altra strada che l’alleanza centrista. Non con Renzi, col quale i rapporti sono sempre stati freddi, ma senza dubbio con Calenda, manager romano di scuola Montezemolo che l’anno scorso ha ottenuto un buon risultato come candidato sindaco di Roma e ora si è trasformato nell’ago della bilancia fra la sconfitta e la disfatta. Senza l’accordo con Calenda, infatti, in assenza di un’intesa col M5S, per il Pd il disastro sarebbe stato totale. Peccato che l’accordo stipulato nei giorni scorsi, con il 70 per cento degli uninominali al Pd e il 30 ad Azione e Più Europa, abbia provocato non poche rimostranze da parte dei rossoverdi di Fratoianni e Bonelli, per non parlare poi di Di Maio e Tabacci che, confinati nella quota plurinominale, rischiano di non raggiungere la soglia del 3 per cento e, pertanto, di rimanere fuori dal Parlamento.
È vero che la campagna elettorale sarà breve e non si voterà sui programmi. È altrettanto vero, però, che le fibrillazioni sui territori non sono poche, fra dirigenti locali che non vogliono essere scavalcati dai vertici nazionali e zone “sicure” che non vedono di buon occhio il fatto di dover ospitare personaggi che hanno assai poco a che spartire con la storia della sinistra.
Il più coerente, da questo punto di vista, è proprio Calenda. Uscito dal Pd nell’estate del 2019, in aperto contrasto con la scelta del partito di dar vita a un governo coi Cinque Stelle, ha fondato Azione, parlando espressamente di socialismo liberale e dicendo di volersi ispirare agli ideali del Partito d’Azione, caposaldo della Resistenza. Ora ha ottenuto, in gran parte, ciò che voleva: l’addio a Conte, la separazione, forse definitiva, del Pd dal Movimento e il proprio ritorno nel campo del centrosinistra. Peccato che, nel frattempo, complice lo spostamento di Berlusconi su posizioni leghiste, il leader di Azione abbia trasformato la sua compagine in una sorta di Forza Italia bonsai, imbarcando Gelmini, Carfagna e probabilmente Brunetta e accogliendoli con tutti gli onori.
Al che, si impone una domanda da rivolgere a Letta: ma se la ricorda l’Onda studentesca del biennio 2008-2010? Se le ricorda le manifestazioni oceaniche contro la riforma Gelmini, basata su tagli feroci alla scuola, fra investimenti e cattedre, che attraversarono l’intera Penisola? Come pensa, il segretario del Pd, di riuscire a coniugare le sue proposte a favore dei giovani, la sua vicinanza ai movimenti ambientalisti e la sua attenzione al mondo della scuola con la presenza, nelle file alleate, di personaggi che erano tra i principali sostenitori e fautori di quei provvedimenti? L’impressione che si avverte è che nel fu campo largo non vi sia, complessivamente, la cognizione del periodo che stiamo vivendo. Il bisogno di radicalità avvertito dalle nuove generazioni è molto simile a quello che esprimevano i movimenti di una ventina d’anni fa, gli stessi che animarono le manifestazioni di Seattle e di Genova, ponendo al centro del dibattito pubblico temi come il femminismo, la questione climatica, la connessione fra lotte operaie e lotte studentesche e l’alleanza, in chiave progressista, fra generazioni diverse.
Proprio Carlo Calenda, nel suo ultimo libro, La libertà che non libera, si è concentrato sul tema dell’identità. Almeno a livello teorico, il nostro sembra aver capito che questa è una fase storica nella quale prevalgono coloro che hanno qualcosa da dire e riescono a esprimerlo con nettezza. Lo stesso Letta aveva compiuto una serie di riflessioni in tal senso, negli anni scorsi e anche nelle sue prime uscite da segretario. Presentarsi davanti al popolo con un’identità annacquata, dicendo tutto e il contrario di tutto, non sembra, dunque, un buon viatico per convincere gli elettori a dar fiducia a questa composita coalizione. A tal proposito, ci torna in mente un editoriale, intitolato Il giorno dell’Apartheid, che Furio Colombo, all’epoca deputato del Pd, scrisse per l’Unità il 19 ottobre 2008. Cominciava così: «Un evento triste e squallido è avvenuto nella Camera dei Deputati nei giorni 8 e 9 ottobre quando la maggioranza di governo, guidata dalla Lega, ha proposto e fatto approvare una odiosa mozione che chiede la separazione e segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane». Uno dei passaggi più significativi dell’intervento in Aula di Colombo fu il seguente: «L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano prontamente segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia e di psicologia ma di comune buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano. L’ottusa idea leghista è il 41 bis dei bambini immigrati. […] Prevedo e temo che questa ignobile mozione non sarà respinta. Perciò mi unisco alla umiliazione di molti colleghi di Alleanza nazionale e di ciò che resta di Forza Italia che dovranno votare questa mozione fondata su separazione, Apartheid, xenofobia, razzismo».
Poiché un po’ crediamo di conoscerlo anche noi, l’elettorato del Pd e del centrosinistra, consigliamo a Letta, a Calenda e a tutte e tutti coloro che compongono questa bizzarra alleanza di tener conto di un aspetto non secondario: sono persone che leggono, si informano e hanno buona memoria. In molti casi sono insegnanti, in altri sono giovani adulti che hanno fatto parte del movimento dell’Onda. Possono pure essere responsabili e fare buon viso a cattivo gioco, ma anche la pazienza ha un limite.