“Non siamo politici. Siamo atleti”. Se a pronunciare questa frase fosse stato un calciatore qualunque di Serie A nessuno ci avrebbe fatto neppure caso.
Ma l’autore non è un calciatore, e men che meno uno qualunque, ma il giocatore di basket vivente più forte al mondo, uno dei tre più grandi di sempre, icona planetaria della lotta per i diritti dei neri e degli afro-americani. LeBron James.
E quello di cui sta parlando è la querelle tra Cina e Nba, la quale nei giorni scorsi si è schierata dalla parte dei manifestanti di Hong Kong, salvo poi fare una brusca retromarcia, con tante scuse, dopo essersi fatta due conti su quanto le sarebbe costato il paventato boicottaggio di Pechino.
I diritti sono importanti, ma i 4 miliardi di dollari in ballo lo sono di più. Dev’essere stato quello che ha pensato anche Lebron James, che, tra sponsor, ricadute dirette e indirette, deve ai cinesi quasi metà del suo patrimonio.
È finita con la gigantografia di James data alle fiamme dai manifestanti nel centro di Hong Kong, il conto in banca intatto e un tweet, diventato virale, di Enes Kanter, anche lui cestista, anche lui stella Nba, un altro che di diritti qualcosa se ne intende.
“I’m more than an athlete” ha scritto Kanter. “Sono più di un atleta”. Il riferimento alle parole di James è talmente chiaro ed evidente da diventare il caso sportivo, politico e diplomatico dell’anno.
Da una parte un americano ricco e famoso che difende i diritti dei neri, degli ultimi, degli emarginati, ma di fronte ai cinesi diventa improvvisamente prudente e placido come un agnellino.
Dall’altra un turco che vive e gioca negli Usa e che, per un altro tweet contro Erdogan, durante il controverso golpe in Turchia, è stato bandito per sempre dal suo Paese e si è visto tranciare ogni rapporto o collegamento con la sua famiglia.
Uno che ha messo in gioco tutto per difendere la libertà, la democrazia, il suo Paese, quello in cui crede. E per questo ha pagato tutto. Non (solo) milioni di dollari, ma brandelli di sangue e di vita. Esattamente come l’altro simbolo dello sport turco, quell’Hakan Sukur costretto all’esilio negli Usa, in California, per non essersi piegato a Erdogan.
E, nel momento stesso in cui scrive sui social, nell’attimo stesso in cui prende posizione, Kanter dimostra quanto quel tweet sia di una verità accecante: “Non sono solo un atleta”. Non sono solo atleti.
Come io non solo solo giornalista, come un medico non è soltanto un medico e un elettricista non è solo un elettricista. E lo sport non è solo sport. Siamo uomini, prima che professionisti. Ognuno alla sera, quando va a letto, fa i conti con la propria coscienza, non c’è fuga, non c’è scorciatoia.
Se esiste una morale, in questo confronto di mondi, di stili e di idee, è che non è una questione di soldi, convenienza, opportunità. È questione di scelta: ogni giorno scegliamo di essere chi siamo e chi vogliamo essere: sportivi o uomini.
Lebron ha potuto scegliere chi essere, Kanter no. La vita ha scelto per lui. È “più di un atleta”. Più di un politico. È un uomo.
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