Quando ho sentito le parole di Mario Draghi al vertice Nato a Madrid mi è venuto in mente il volto di Arin Mirkin. «Siccome questo è un punto molto importante, è bene che questa domanda la facciate alla Svezia e alla Finlandia». Draghi – al termine del vertice Nato – raggiunto da una domanda sulla svendita dei curdi alla base dell’accordo con la Turchia, prima sembra voglia sfuggire, poi torna indietro e pronuncia poche parole, ma significative. In sostanza: chiedetelo a loro.
Dunque, ricapitoliamo. L’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia rischiava di naufragare a causa del veto annunciato dal presidente turco Erdogan. Poi è giunto l’accordo: la Turchia non porrà alcun veto, il processo di adesione dei due Stati nordici può andare avanti. Cos’è che ha convinto Erdogan? La testa dei curdi. Detta così è senz’altro forte, lo so. Meglio dire cose chiare però, piuttosto che mezze frasi. Poche cose chiare e dritte che ci aspetteremmo anche dalle istituzioni nazionali e internazionali che ci rappresentano e sventolano la bandiera dei diritti. «In Finlandia non stiamo cambiando la nostra legislazione. La Svezia non sta cambiando la sua legislazione», ha detto a Euronews il ministro degli Affari esteri della Finlandia, Pekka Haavisto. «Siamo d’accordo su una certa cooperazione tra le nostre autorità, ma stiamo seguendo le nostre leggi in materia di diritti umani, di esportazione di armi e così via. E non credo che questo tipo di cooperazione rafforzata tra le autorità sia una cosa negativa».
Ma insomma, non prendiamoci in giro. Erdogan lo conosciamo bene, non si sarebbe accontentato di un pugno di mosche. L’abbiamo già visto all’opera tante volte in passato. L’Europa non ha imparato la lezione del 2015/2016 quando gli concesse 6 miliardi di euro per bloccare il flusso dei profughi siriani sulla rotta balcanica (più di 4 miliardi già erogati, il resto entro il 2025). Lo pagammo per fare il lavoro sporco. Toglierceli dalla nostra vista. Io ritrovai i bambini siriani, anche di cinque e sei anni, lavorare al confine nelle sartorie. Cucivano vestiti e scarpe. Avevano le mani blu del colore dei jeans. Versavano in dubbie condizioni sanitarie. Non andavano a scuola. Soldi ben spesi quelli delle democrazie europee, non c’è che dire. Svezia e Finlandia si sono impegnate a non sostenere più il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), e fin qui non c’è da sorprendersi visto che è ritenuto organizzazione terroristica da tempo da Stati Uniti e Unione europea. Nell’accordo, però, rientrerebbe anche il movimento islamico gulenista, il cui leader, Fethullah Gulen, vive in esilio negli Stati Uniti, e – udite, udite – la milizia curda Ypg (Unità di protezione popolare).
Rinfreschiamoci la memoria. Sono quelli che hanno combattuto l’Isis in Siria al fianco degli Usa e dell’Occidente. Ve le ricordate le combattenti curde? Arin Mirkin era una giovane donna madre di due figli, durante l’assedio di Kobane nel 2014 si fece esplodere per fermare l’avanzata dei terroristi dell’Isis. C’è la sua storia e quelle di molte altre combattenti curde nel bestseller del New York Times “Daughters of Kobani”. Vecchi tempi. Chi se le ricorda più. Così come ci siamo dimenticati il progresso sociale di cui si sono rese protagoniste: l’abolizione della sharia, dei matrimoni obbligatori, il ruolo centrale delle donne.
E no, caro Mario Draghi, alla domanda che ti è stata posta a Madrid non spetta solo a Svezia e Finlandia rispondere. Tocca anche a noi. All’Europa, alla Nato. In nome del futuro che si vuole costruire, delle basi che stiamo scegliendo di mettere. A chi invece invoca realismo, pragmatismo, («Qualcosa bisognava concedere, non pensi al popolo ucraino sotto le bombe russe?») non me la sento di rispondere. Sono sinceramente stanca di questo metodo di confronto polarizzante. Sono profondamente stufa della mancanza di trasparenza. Se vogliamo scambiare la testa dei curdi con quella di altri, se questo è il metodo che riteniamo sia vincente, almeno si abbia il coraggio di dirlo ad alta voce. La polvere nascosta sotto il tappeto è fumo negli occhi che ci accecherà presto.