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    E se Landini fosse il Lula italiano? (di Luca Telese)

    Credit: Facebook Cgil

    Riunisce le opposizioni. Invita a duello la Meloni. È già un capo-polo. E se il leader della Cgil fosse il futuro condottiero della sinistra? Il Brasile insegna: Bolsonaro sconfitto da un ex sindacalista

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 25 Mar. 2023 alle 07:00 Aggiornato il 6 Apr. 2023 alle 11:30

    È stato il congresso che ricorderemo tutti per il duello tra “Maurizio” e “Giorgia”, senza dubbio. Ma è stato anche anche quello del primo confronto tra tutti i leader dell’opposizione (per la prima volta “costretti dalla Cgil” a discutere gli uni con gli altri, sullo stesso palco). Ed è stato – soprattutto – un congresso corale, coloratissimo, quasi festoso, fin dalla sua scenografia, incardinata su due enormi bandiere della pace che sovrastavano il palco facendo da cornice a qualsiasi intervento.

    Ma – ora che i riflettori si sono spenti – è più evidente che questo congresso della Cgil a Rimini è stata anche una kermesse che segnerà l’agenda della politica italiana dei prossimi mesi con i suoi temi: equità, pensioni, salario minimo, lotta alla precarietà, difesa dello stato sociale. E, soprattutto, per quel che riguarda il centrosinistra: opposizione al governo. 

    Parto dunque da quella sfida della Meloni sul podio – a tratti persino spettacolare, nel confronto con i mille delegati – che è stata quasi banalizzata nel suo racconto mediatico come l’impresa di «una leader coraggiosa» in partibus infidelium.

    Immaginate invece una presidente del Consiglio che viene accarezzata dalla tentazione di farsi fischiare (per la Meloni era una win-win, un successo anche solo essere entrati nella tana del leone), poi contestata da un piccolo gruppo di delegati che escono cantando “Bella ciao!”, e l’epilogo di un intervento coronato da venti minuti di fiati sospesi. La partita iniziava solo allora. Immaginate dunque che il vero braccio di ferro era quello con l’assemblea dei delegati – passione e disciplina – che ascoltavano combattuti tra il rispetto sacro per l’ospite e il naturale istinto di autotutela della propria identità. 

    Sfida mediatica
    C’è stato un momento cruciale, quando la Meloni ha iniziato ad affondare il coltello con la sua nota verve polemica («Avete questa fissazione per il Reddito… Avete questa fissazione per il salario minimo…»), in cui la sala avrebbe potuto esplodere. Sia perché il tono era volutamente provocatorio. Sia perché la Meloni sapeva benissimo che in realtà la Cgil è approdata alla bandiera del salario minimo, su impulso di Landini, dopo un lungo e complesso dibattito interno, superando molte posizioni scettiche. 

    Ma perché, dunque, la leader di Fratelli d’Italia accusava la Cgil su salario e Reddito di cittadinanza? Perché la strategia messa in campo nel discorso della Meloni era più ambiziosa di quanto non apparisse a prima vista, e non si limitava ad una passerella.

    Il punto, cioè, era andare in casa del primo sindacato d’Italia (non a caso il più critico con il governo) sfidarlo da destra con posizioni “di sinistra”, e dirgli in sostanza: noi tuteliamo i lavoratori colpiti dalla crisi e i nuovi diritti meglio di voi. Ha detto un osservatore non sospetto di simpatie landiniane come l’ingegner Carlo De Benedetti: «Le ricette della Meloni, in realtà, sono vecchie di quarant’anni: metà Reagan, metà Trump». Una sintesi icastica. 

    Ma dopo la grancassa dei media intorno alla premier, Landini e la Cgil hanno ottenuto da quella sfida mediatica alcune cose per loro molto importanti: incardinare il dibattito sui temi “laburisti” che stanno loro più a cuore e – fin dalla sera di venerdì – serrare i ranghi dei tre sindacati confederali intorno alla linea della Cgil (recuperando la Cisl al fronte di opposizione alla manovra e alle riforme del governo).

    Non era scontato, ma c’è dell’altro. Ed è davvero come se la molla emotiva di quel popolo, che nel congresso si era caricata giovedì durante il confronto con i leader di opposizione e venerdì con l’Ok Corral meloniano, esplodesse in un applauso catartico e nelle tante lacrime di commozione durante le conclusioni del segretario.

    Il che accade nel lungo affondo finale, pronunciato da Landini tutto a braccio, e carico di forza emotiva: «Davanti a noi non abbiamo un periodo semplice, ma di che cosa abbiamo paura? Che cosa abbiamo da perdere? La precarietà che non si cancella? Il salario basso che non ci danno? Il Reddito che vien cancellato? Di che cosa dovremmo aver paura? Dovremmo temere solo la paura di aprirla questa discussione tra di noi!».

    Landini si riferiva allo sciopero generale, alla scelta di andare muro contro muro contro il governo sulle pensioni: «Io non so come va a finire questa battaglia. Questo congresso, però, ci dà un punto di forza: siamo uniti. Di sicuro se non fai nulla, se non combatti, hai già perso. Noi non ci fermeremo, e questa  battaglia la vinceremo».

    Ed ecco il film della sequenza finale. I delegati che iniziano ad applaudire a scena aperta, che si alzano in piedi nel finale scandito da quelle interrogative, e che tributano al loro segretario una ovazione finale. 

    Quella felpa rossa
    Dopo tanti leader di sinistra abituati a proclamare di aver vinto (che poi immancabilmente hanno perso senza nemmeno combattere), Landini si concede l’eleganza di un condottiero che chiama alla battaglia dicendo di non essere sicuro di vincerla, ma che intanto lavora perché tutti la diano.

    Questa nuova Cgil, dunque, non ha nulla a che vedere con la vecchia “cinghia di trasmissione con la sinistra”, perché è più ambiziosa.

    Nel vuoto della politica, nella desolazione della doppia sconfitta  (politiche più amministrative), svolge funzione di supplenza: si carica tutti sulle spalle, si candida a essere l’infrastruttura che costruisce l’alternativa. In modo parallelo, non a caso, con quel che fa in questi giorni il sindacato in Francia, sostenendo una impotente protesta sociale (sulle pensioni) contro Emmanuel Macron. 

    Non è un caso che Landini indossasse, durante il suo intervento, il nuovo gadget identitario di Corso d’Italia, la fantastica felpa rosso fuoco con una sola manica bianca, e il grande quadrato rosso della Cgil sul petto.

    Non è un caso che gli eroi di questo congresso fossero i tanti delegati popolari che raccontavano l’Italia sociale. Il metalmeccanico di colore che dice – proprio un attimo prima che la Meloni salga sul palco – «Pago da venti anni le tasse in Italia, sono un cittadino italiano». Oppure la giovane ingegnera che ha rifiutato un contratto da 750 euro («Dicendo no impedisco che a un altro propongano un salario da fame!»). Oppure la giovane portantina che infiamma la platea con un racconto vivido e appassionato che spiega l’effetto dei tagli di bilancio in corsia. 

    Se dunque il congresso di Rimini ci dice che la destra e la sinistra scelgono di confrontarsi sul terreno del sociale, se dunque la Meloni e Landini usano il reciproco riconoscimento non per inciuciare ma per darsi lealmente battaglia, ecco che l’ultima domanda è quella sul destino di questo segretario che ha rianimato la Cgil, l’ha curata dalla sua crisi, le ha cambiato il sangue e l’ha riposizionata.

    Tra quattro anni Landini non potrà più – per le sacrosante regole interne del sindacato – essere rieletto. Tra quattro anni sarà un quadro politico che torna disponibile per il popolo della sinistra, proprio quando si staranno per celebrare le elezioni. Un po’ come Lula in Brasile, che è tornato contro Bolsonaro per combattere contro il populismo con la bandiera del lavoro. 

    Lula era un tornitore, Landini un saldatore. Uno così atipico che iniziò a fare il sindacalista  scioperando contro un padrone comunista: «Guarda Landini che io e te abbiamo in tasca la stessa tessera!», gli diceva il suo datore di lavoro indispettito. E lui, che protestava con i suoi compagni perché tutti volevano dei giacconi per lavorare in esterno, gli aveva risposto: «Sarà sicuramente vero. Abbiamo la stessa tessera in tasca, ma io quando lavoro fuori ho freddo uguale».

    Chissà, dunque, che questo intervento della Meloni a Rimini, non sia un racconto breve, ma il primo capitolo di un lungo romanzo: la sfida  di un “Lula” emiliano contro una “Bolsonaro” romana. Perché nel terzo millennio, nel tempo della crisi, quella sul futuro del lavoro è la grande domanda. «Guardate – ha detto Landini durante quel dibattito con i leader dei partiti – che nella sfida della sinistra italiana, i diritti civili sono arrivati dopo i diritti sociali, e grazie si diritti sociali».  Come è vero. Lula-ndini.

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