Ci sono due domande che continuano a girarmi in testa da ieri: se Alika Ogorchukwu fosse stato italiano, bianco, qualche voce in più sulla sua morte si sarebbe alzata?
E poi, io, ieri, di fronte a questa scena di efferata violenza, cosa avrei fatto? Così per prima cosa ho pensato a chi riprendeva col cellulare, faceva video e restava in silenzio. Poi mi sono ricordata un episodio, di alcuni anni fa, in cui dei ragazzotti di circa 20 anni, durante un Capodanno romano, infastidivano alcuni ambulanti nel mentre di un concerto al Circo Massimo. Questi ragazzi si divertivano a buttar loro addosso dei petardi, li accendevano e glieli tiravano. E a poco a poco diventavano sempre più arroganti e violenti e il gioco pericoloso. Ma nessuno diceva niente, perché di indifferenza non si muore (credono alcuni).
E invece io, dall’alto dei miei 25 anni, che potevano pure essere 15, iniziai a urlare, a scagliarmi contro di loro, lasciandomi alle spalle l’allora fidanzatino inerte (cosa che mi portò in seguito a rivalutare la relazione e la persona).
Senza divagare e svilire il fatto di cronaca, il succo è: no, non avrei mai fatto un video dell’accaduto restando in silenzio e ferma. Nemmeno se avessi valutato l’utilità di quel video per la polizia. E non perché sia brava o coraggiosa, ma perché nell’orizzonte della realtà il pensiero di vedere una persona che ne ammazza di botte un’altra, in pieno centro, in un pomeriggio di luglio, mi vieta categoricamente di restare spettatrice.
Pian piano nella testa iniziano a impilarsi le immagini di tutti i video che ho visto in rete e che hanno raccontato le stesse dinamiche. Mi domando allora perché su – ipotizziamo – 5 video della stessa scena da diverse angolature, non vi sia almeno una irruzione di qualcuno che frena quell’escalation di violenza. Forse perché di Willy Monteiro Duarte (giovane italiano di origine capoverdiana, vittima di omicidio e medaglia d’oro al valore civile alla memoria) ne esistono sempre meno. E perché Willy, per fare ciò che ha fatto, ha pagato con la vita.
Ma l’indifferenza, la vigliaccheria, la meschinità di restare nell’ombra con un telefono a riprendere non raccontano molto di più di ciò che siamo diventati? Di quanto abbiamo paura dell’altro? Alika Ogorchukwu è stato ammazzato con la stampella che gli reggeva i passi in seguito a un incidente d’auto, così ha dichiarato il suo avvocato. L’aggressore, che è già in stato di fermo, ha dichiarato invece che Ogorchukwu aveva importunato la fidanzata. Quello che resta sono quei minuti, lunghissimi, in cui l’aggressore lo finisce di botte. L’omicida non è nemmeno animato da una rabbia cieca, più da una violenza apparentemente legittima, da una ferocia serafica, da una spietatezza sterile. Qualcuno commenta, qualcuno filma col cellulare. Nessuno interviene. Avranno avuto tutti la pancia piena e gli occhi abituati a questo genere di immagini.
“Forse il futuro prossimo porterà catastrofi inimmaginabili. Ma ciò che di sicuro minaccia il mondo non è tanto la violenza di moltitudini fameliche quanto la sazietà di masse annoiate”, scriveva Nicolás Gómez Dávila. E questo è ciò che spaventa di più. L’abitudine al male.
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