Accade, in un giorno di giugno, anno domini 2023, che quattro ragazzi causino la morte di un bambino mentre sono al volante di un’auto che non potrebbero nemmeno guidare con l’unico intento di mostrarsi sui social e fare soldi.
Qualcuno obietterà che si tratta di un caso più unico che raro, e cioè di quattro semplici cretini. In realtà, nella loro beata demenza, quei quattro ragazzi sono lo specchio riflesso di una società che si crogiola nella esaltazione dell’apparenza, dei like, dei soldi fini a se stessi.
Sì, perché nel Paese dove tutto è il contrario di tutto, i quotidiani e le tv che negli ultimi anni hanno contribuito a creare il mito di TikToker, YouTuber, influencer e Ferragni-alike oggi sono gli stessi e i primi a scagliarsi contro quei quattro ragazzi reclamando giustizia e pene straordinarie.
Viene dunque da chiedersi, delle due l’una: o chi scrive queste cose ha zero morale e molta ipocrisia da poter rivendicare; oppure (peggio) è semplicemente smemorato, inconsapevole però del danno che arreca nel fare un’informazione leggera ma altamente efficace, etichettando quali creature ispirazionali giovani di successo di un mondo digitale e inesplorato all’avanguardia.
Con nonchalance, infatti, questi media hanno raccontato per anni che l’influencer è per molti giovani il mestiere del futuro. Pagine su pagine dedicate alla tal influencer attivista, multi-laureata, multi-impiegata (con partita Iva), self-made-woman con 110 e lode senza l’aiuto di mamma e papà.
Insomma, il messaggio è: i social e gli influencer sono un’alternativa alla scuola quale motore per la mobilità sociale. E laddove non trovassi la strada spianata, con Instagram ce la fai. O, almeno, ce la puoi fare.
Anche così sono nati con maggiore scioltezza serie, film, documentari. Piccolo e grande schermo scoprono un nuovo mondo: i ragazzini YouTuber, TikToker, influencer non portatori di un pensiero e che, per questo, piacciono a tutti (e costano pure meno degli attori veri). Formato nuovo cinepanettone.
Il dramma è che poi i risultati li vedi in quelle sfide idiote, le “challenges” documentate dai minifilmati reel a chi salta più in alto dal ponte di un’autostrada o dal dirupo di una montagna, meglio se a bordo di una moto mentre mangia una fetta di torta.
Il tutto è degenerato semi-definitivamente quando anche l’istruzione ha riconosciuto e legittimato il mondo dei video insulsi da 15 secondi volti solo a racimolare popolarità e, in alcuni casi, denaro. Nel 2019 infatti l’università eCampus ha offerto, primo fra gli atenei italiani, un corso di laurea per aspiranti influencer.
Obiettivo: sfornare monster-zombie-content-creator e insegnare loro che il lavoro non ha più valore alcuno, che il modo più semplice per fare soldi è sfrecciare a 200 chilometri orari su un’auto di lusso. E se ci scappa l’incidente, pazienza, sono cose che capitano.
Leggi l'articolo originale su TPI.it