Il tema della denatalità sembra essere un nodo di particolare rilevanza dell’agenda politica contemporanea. La tendenza, però, è quella di approcciarsi all’argomento con la stessa prospettiva con cui si affronta ogni tema inerente alla famiglia e alle politiche sociali, quindi senza considerarne la complessità.
Si sceglie di puntare i riflettori di colpevolezza sulle persone “childfree” che hanno scelto di non procreare, o su quelle che ricorrono all’interruzione volontaria di gravidanza, esercitando l’insindacabile diritto di scelta sul proprio corpo, invece di guardare al punto nevralgico della questione denatalità, che è da individuare anzitutto in una società che non riesce a soddisfare il desiderio di maternità laddove presente.
Parliamo di chi i figli li vorrebbe ma non li fa. Parliamo di “status anxiety”, ovvero l’esigenza dei genitori di garantire ai figli uno status e nuove dimensioni di cura, quindi anche psicologica, oltre che i beni di prima necessità, che vanno oltre il dover provvedere a nutrirli ed istruirli. Se è difficile garantire tutto questo a un figlio o una figlia, quando i bambini sono più di uno la difficoltà raddoppia. A proposito di questo, l’Istat riporta un dato esplicativo: il 41 per cento di chi ha un figlio desidererebbe avere il secondo, ma non lo fa. Concentriamoci, dunque, anche sulle famiglie che hanno un figlio e che ne vorrebbero un altro e sul “fertility gap”, termine che si riferisce alla differenza tra il numero di figli desiderati e la fecondità realizzata.
Concentriamoci su chi i figli li vuole e non è messo nelle condizioni di averli. Sebbene il partito che ha in mano il governo abbia dedicato ampio spazio al programma «sostegno alla natalità e famiglia», le famiglie continuano a urlare uno scontento collettivo, nessuno ha manifestato un aumento del desiderio di riprodursi e i genitori non hanno tirato sospiri di sollievo. Perché?
L’attuale governo prevede l’esistenza di una maternità predefinita, continuando a non intercettare le problematiche della genitorialità e a parlare sempre e solo di maternità, agevolando lo sbilanciamento della divisione del lavoro di cura all’interno dei nuclei familiari, che pesa ancora quasi esclusivamente sulle madri. Persino quando si parla di servizi per l’infanzia si riesce ad esprimersi impropriamente sulle madri, avvalendosi di codici che rimandano a delle concessioni. Gli asili nido gratuiti non sono descritti come importanti misure sociali, ma come strumento «utile alle madri».
Si continua a raccontare di affidare alle istituzioni un compito che spetterebbe, dunque, alle madri. Questi passaggi alimentano la certezza che ci si sta muovendo verso una direzione drammaticamente binaria, per cui esiste solo il tipo di genitorialità tradizionalmente imposto. Una tradizione vecchia, figlia di una società che non esiste più.
La concezione assoluta di famiglia di carta e un’evidente assenza di aderenza alla realtà contemporanea delle condizioni delle famiglie italiane e delle cause della denatalità, è dimostrato anche dall’ultima misura proposta dal ministro Giorgetti, che propone di detassare le famiglie con almeno due figli.
L’impressione è che il nostro governo continui ad appiattire la complessità del tema denatalità, a ignorare le difficoltà delle famiglie e le ragioni che portano alla rinuncia alla genitorialità, pur desiderandola. Si ignorano fenomeni di criticità centrale, come “maternity wall”, “child penalty” e tutte le altre barriere (strutturali, istituzionali e culturali) che le madri affrontano a seguito della maternità. L’impressione, in definitiva, è che sul tema natalità, il nostro governo continui a guardare il dito, e non la luna.