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    L’Italia non è una colonia per multinazionali: grazie commissari Ilva per aver fermato Mittal

    Credit: Wiki Commons

    Fino a ieri il colosso franco-indiano pensava di poter mettere la pietra tombale gli altiforni. Ora ha dovuto fare marcia indietro: c’è un giudice a Milano. Il commento di Luca Telese

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 19 Nov. 2019 alle 10:40 Aggiornato il 21 Nov. 2019 alle 14:20

    Ilva, i commissari fermano Mittal: l’Italia non è colonia per multinazionali

    Mittal ha dovuto fare marcia indietro: l’altoforno di Taranto non può essere spento. La multinazionale ha perso un round, la partita è lunga, ma la frenata dei franco-indiani dimostra che non siamo ancora diventati una colonia per imprenditori predatori e spregiudicati e che lo stato di diritto in questo paese esiste ancora.

    La pretesa di fermare l’impianto era follia: non occorreva essere esperti di siderurgia, ma bastava essere armati di buonsenso per capire che chi ha un bene in affitto non ha il diritto di distrugge quello che non è suo.

    E le parole dei commissari straordinari dell’Ilva di Taranto – Franco Ardito, Antonio Lupo e Alessandro Danovi – spiegano molto bene quale fosse il piano: “Distruggere un tradizionale concorrente nel panorama della siderurgia europea e mondiale ai fini di alterare e falsare il mercato della concorrenza”.

    E ancora: la vera storia della crisi Ilva-Arcelor non è quella che l’azienda e i suoi difensori provano a raccontare e imporre da giorni, ma questa: “La programmazione delle attività di chiusura è stata pianificata in modo da arrecare il maggior danno possibile alla produzione siderurgica nazionale, con un livello di offensività devastante tanto per la produzione di settore quanto per l’intera economia nazionale”.

    Nel nostro piccolo, con spirito e passione, queste cose le avevano scritte una settimana fa, quando il coro del sacro ordine degli avvocati difensori di Mittal era intonato e assordante.

    Oggi, invece la verità inizia a venire a galla, anche grazie all’intervento della magistratura, che non difende idee folli o insensate – purtroppo è bene ricordarlo – ma le leggi di questo Stato, i diritti dei cittadini.

    Scrive oggi il Corriere della sera: “Il ragionamento che si fa in Procura parte dal presupposto che, firmando il contratto di affitto degli impianti, ArcelorMittal si è impegnata a mantenere invariato il valore di beni che fanno parte di un fallimento, quello dell’Ilva, e che come tali non possono essere depauperati. Spegnere gli altiforni, esaurire il magazzino di materie prime da 500 milioni di euro, fermare la produzione e aumentare l’indebitamento non pagando i fornitori – aggiunge il quotidiano di via Solferino – sono azioni che, come hanno denunciato i commissari di Ilva, portano a una svalutazione dell’asset di cui potrebbero essere chiamati a rispondere i vertici di ArcelorMittal”.

    Parole sante. Fino a ieri Mittal pensava di poter mettere la pietra tombale gli altiforni e uccidere il cuore incandescente dell’acciaieria. Da ieri ha dovuto fare marcia indietro. C’è un giudice a Milano.

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