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    Altro che Nato, l’Europa deve avere il coraggio di chiedere la neutralità militare dell’Ucraina

    Di Maurizio Tarantino
    Pubblicato il 7 Mar. 2022 alle 14:26 Aggiornato il 7 Mar. 2022 alle 14:58

    Senza scomodare Dostoevskij nel ricordare quanto la cultura e la memoria siano fondamentali per capire le pulsioni sociali (emblematico il caso della presunta cancellazione del ciclo di lezioni sullo scrittore che avrebbe dovuto tenere Paolo Nori a La Bicocca di Milano), per meglio comprendere le dinamiche all’origine della guerra in Ucraina può tornare utile la lettura di “Le Avventure di Čičikov. Poema imposto dalla censura zarista”, più noto a noi occidentali con il titolo “Le anime Morte” di Gogol. 

    In quel romanzo dal sapore burlesco e dissacratore emerge forte la critica alla mediocrità umana e un imbarazzante affresco della Russia del primo ‘800: un Paese medievale, dove i contadini erano intesi quale proprietà dell’aristocrazia, venduti come merce anche se morti, tale era lo scollamento tra impero e popolo da non averne neanche il conto, né preoccuparsi di sapere se i propri sudditi fossero vivi o appunto morti.

    Un secolo dopo, il livello della società russa non era cambiato. In questo caso, senza voler scomodare Trockij e le sue memorie letterarie – che speriamo nessuno auspichi di cancellare – nel libro The Russian Revolution, dello storico americano William Henry Chamberlin, emerge come ancora ai primi del ‘900 la popolazione russa fosse imprigionata in un sistema medievale. 

    La Russia non ha conosciuto gli effetti della rivoluzione francese e non ha mai avuto una borghesia; il pensiero liberale ha attraversato i tumulti scalpitanti della nascita dei soviet  e dell’affermazione del comunismo e si è affacciato nel Paese nel momento in cui era già in atto un’altra rivoluzione, quella bolscevica. Il popolo russo, i contadini, gli operai, le forze armate hanno così compiuto un salto diretto dal medioevo al regime stalinista, senza alcun livello intermedio. 

    Ciò che nell’immaginario occidentale chiamiamo “rivoluzione” è un ventennio a cavallo del 1917 di passionale intellighenzia culturale e politica che dal cinema, allarte, alla letteratura, alla pittura, al teatro, alla filosofia ha influenzato la cultura e la politica mondiale. Ma questa per il popolo russo ha rappresentato solo una parentesi tra l’oscurantismo dello Zar Nicola II e quello dell’Unione Sovietica governata dal nuovo Zar Iosif Stalin, il quale ha esercitato la sua dittatura ben oltre la sua morte, lasciando la sua eredità su tutto il trentennio della guerra fredda e ai funzionari di partito Nikita Chruščёv e Leonid Brežnev.

    La successiva parentesi sarà quella Perestrojka a firma Michail Gorbačëv, ultimo segretario del Partito Comunista Sovietico che ha dato un determinante  contributo alla storia stessa, con la conseguente caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’impero sovietico e quella pubblicazione di Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man: fatti che hanno segnato un punto importante nella geopolitica e nella cultura mondiale, ovvero la convinzione che dalla caduta dell’Unione Sovietica, la fine della Guerra Fredda e del Comunismo, per i secoli successivi il mondo sarebbe stato destinato a un’affermazione definitiva a livello globale dei sistemi politici ispirati ai soli principi della democrazia liberale. 

    Da qui la globalizzazione, il WTO e l’emancipazione dei popoli sotto la bandiera della cultura occidentale. 

    Ma anche stavolta il popolo russo, pur subendo un certo processo di occidentalizzazione delle sole città, non ha conosciuto che un’ennesima parentesi tra lo Zar Stalin e lo Zar Putin. Sono passati 2 secoli, ma il salto intellettuale del popolo è forse drammaticamente rimasto lo stesso, ovvero il passaggio dal medioevo all’era contemporanea, senza passare dall’era moderna. E non c’è nulla di cui stupirci, perché questo passaggio non è solo mancato ai russi, ma all’80% della popolazione mondiale, dall’Africa, alla Cina, all’India al Medio Oriente.

    L’arroganza con cui gran parte della politica occidentale pretende di esportare la democrazia in luoghi e popolazioni del mondo che non hanno avuto nessun processo di intermediazione per comprenderla, né tantomeno poterla attuare, è stata fonte di grandi catastrofi sociali che non di rado hanno alimentato la nascita e la crescita di gruppi fondamentalisti e di fanatismi etnici e nazionalisti. 

    Se i banchi del Parlamento avessero avuto più storici e meno tuttologi, oggi forse non solo la guerra in Ucraina, ma molte guerre si sarebbero potuto evitare.

    Nel caso dell’Ucraina, come di tutti i Paesi dell’ex Unione Sovietica, la questione del nazionalismo è particolarmente importante nell’analisi degli scenari. Tutte le regioni dell’ex-impero hanno infatti scontato per oltre cinquant’anni un processo di russificazione spesso vissuto in maniera repressiva. Questi percorsi sociali hanno lasciato il segno per riemergere in maniera deflagrante dopo la caduta del Muro in una serie di movimenti nazionalisti che rivendicano l’identità patriottica del loro Paese. 

    Emblematica è proprio la storia dell’Ucraina. Nel 1918 i popoli dell’Ucraina, da Kyiv a Lepoli a Ivano-Frankivs’k, si unirono in una catena umana di 500 km per celebrare l’indipendenza del Paese dai russi. Dopo oltre 70 anni, il 22 gennaio del 1990, in Ucraina si svolse una tra le più grandi manifestazioni dell’Europa Centrale e Orientale: più di un milione di persone formarono una “catena umana” come simbolo dell’unità delle terre orientali e occidentali, da Kyiv a Lviv. A organizzare l’evento fu una nuova organizzazione giovane e indipendente d’ispirazione nazionalista: il Ruch. Nei 70 anni tra le due manifestazioni però si assiste a momenti drammatici che hanno seminato il terrore nella società ucraina e legati ai processi di russificazione e sovietizzazione del Paese. 

    Ryszard Kapuścinsky, storico reporter polacco, nato a Pinsk, città di confine tra Bielorussia, Ucraina e Polonia, nel suo Imperium descrive testimonianze locali del Comune di Sepetivka, nei pressi di Leopoli, dell’inferno vissuto dai contadini ucraini nel periodo passato sotto il nome de “la grande fame”, tra il 1930 e il 1937: sette anni in cui a seguito delle proteste dei contadini (il 75% della popolazione) dopo la proclamazione da parte di Stalin del regime dei kolchoz (le fattorie collettive), i russi misero alla fame la popolazione di una delle terre più produttive di grano al mondo. Furono gli anni del genocidio voluto dalla dittatura russa contro il popolo ucraino, dove si stima morirono di fame circa 10 mln di persone. Stalin chiese alle fattorie ucraine una fornitura di derrate alimentari destinate all’Unione Sovietica in quantità decisamente maggiore di quelle che erano in grado di produrre. Con questo metodo si riservò di svuotare i villaggi da ogni genere alimentare, lasciando milioni di persone alla fame e agli stenti che portarono anche al diffondersi del fenomeno del cannibalismo. Da qui il detto dei “comunisti che mangiano i bambini”. 

    Le popolazioni dell’Ucraina hanno subito una delle violenze più terrificanti che una dittatura può imporre, ovvero il genocidio per fame che per quasi un decennio ha costretto gli abitanti del luogo alla crudeltà più assoluta verso la loro stessa gente. Da qui si può comprendere come oggi vi sia il terrore del ritorno di una dittatura russa. 

    Dall’indipendenza di questa terra oggi, diversamente da quanto accaduto in altri stati del blocco occidentale dell’ex Unione, l’Ucraina con diverse sfumature ha mantenuto un profilo di neutralità, alternando presidenti filo-russi ad altri che guardavano all’Europa e a Occidente. 

    Teniamo conto che nello scacchiere internazionale il Paese ha un peso enorme, sia perché considerato il granaio del pianeta, sia perché tra i più ricchi di materie prime al mondo. Non da ultimo, il fatto che dall’Ucraina passano i gasdotti russi che in questi ultimi giorni valgono per l’economia russa circa 600 milioni di € al giorno. Una cifra enorme e un mercato molto appetibile per gli Stati Uniti, in grado di spostare gli equilibri geo-politici dell’intera area occidentale. 

    Sono infatti quasi due decenni che il baricentro economico del mondo subisce forti oscillazioni: l’aumento degli scambi commerciali tra Europa e Russia, l’ingresso nella WTO della Cina, l’enorme sforzo produttivo dell’India stanno generando grandi ansie e scombussolamenti con ripercussioni su quello che era ritenuto un sistema florido e duraturo, il blocco Stati Uniti ed Europa. 

    Per tali ragioni, oltre che per le manie di grandezza tipiche di una personalità megalomane, Vladimir Putin ha sempre tenuto l’Ucraina legata al giogo russo, agitando minacce e azioni militari ogni qualvolta riteneva pericolosa l’iniziativa occidentale nelle regioni dell’ex blocco sovietico. Quelli di Putin sono stati decenni sanguinari, durante i quali l’ex funzionario del KGB russo, al 4° mandato da Presidente della Federazione Russa non si è fatto scrupolo alcuno ad eliminare qualsiasi dissenso sia civile  (vedi l’assassinio di Anna Stepanovna Politkovskaja), sia militare (vedi la Cecenia, la Georgia, e in ultimo la Crimea e l’Ucraina). 

    Sulle salme dei bambini di Beslan il mondo intero ha visto di cosa è capace Putin: ordinare di assaltare una scuola, seppur invasa dai terroristi, sapendo che sarebbero morti i figli della sua stessa gente (300 morti e 700 feriti il bilancio di quell’operazione che si rivelò una strage).  

    Dall’altra parte, il nazionalismo ucraino negli ultimi anni ha assunto dimensioni e sembianze preoccupanti. Il Battaglione Azov, di cui in questi giorni sentiamo parlare, è una milizia apertamente ispirata ai valori nazisti, che dal 2014 è riconosciuta dal Ministro dell’Interno, Arsen Avakov, come guardia nazionale e usata nel conflitto in Donbas, macchiandosi di crimini di guerra, torture, stupri. Azov si è presentato anche alle ultime lezioni sbandierando principi apertamente xenofobi e di estrema destra. 

    Come ricorda Andrea Walton in un suo articolo su Insider Over del 22 Febbraio 2019, sono numerosi i report pubblicati dall’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani in cui si evidenziano gli abusi del Battaglione Azov che si è macchiato di commissione di crimini, lesione di diritti umani, saccheggio di massa, ingiusta detenzione, torture e stupri effettuati nei confronti della popolazione civile o dei ribelli separatisti. Un gruppo politico organizzato che disprezza le minoranze etniche e le  comunità Lgbt. Per anni il Battaglione è entrato nell’immaginario della destra Europea come un’avanguardia politico-militare del vecchio continente, richiamando a sé centinaia di foreign fighters da varie nazioni occidentali.

    L’ex presidente Poroshenko ha celebrato più volte le gesta epiche del Battaglione Azov in Donbas, legittimandolo come la migliore squadra dell’esercito ucraino, cosa che ha fatto storcere il naso a molte organizzazioni umanitarie. Solo negli ultimi anni, con l’arrivo del presidente Volodymyr Zelens’kyj, si è provato a ridimensionare il gruppo militare. Tale operazione però ad oggi non è riuscita, perché Azov controlla buona parte delle piazze, fomenta da anni le agitazioni anti-russe e si pone in maniera minacciosa contro lo stesso governo. Il rischio è che questi gruppi siano incontrollati se armati dagli Occidentali e che le escalation militari portino alla creazione di veri e proprie cellule terroristiche, o di fenomeni politici incontrollati. 

    Il vero problema non sta tanto nel fatto che esista un gruppo dichiaratamente nazista in Ucraina, (gruppi simili sono presenti ovunque, anche in Italia e in Russia), ma che questi gruppi siano armati, riconosciuti dal governo come organizzazioni militari e soprattutto calati in una delle situazioni più delicate per la geo-politica mondiale. L’Ucraina, infatti, è contesa dalla Nato e dalla Russia quale punto nevralgico. 

    La politica assunta da Zelens’kyj è stata tutta rivolta a un processo di occidentalizzazione del Paese, di ingresso nella Nato, prima, e nella UE poi. La cosa è stata probabilmente coltivata soprattutto dagli Stati Uniti che non di rado hanno fatto ingerenze e pressioni per l’allargamento della Nato a Est, con posizioni spesso non allineate, né condivise con gli alleati europei. 

    In una recente intervista al Riformista, Sergio Romano ha sostenuto che l’Ucraina dovrebbe mantenere un profilo di neutralità come la Svizzera o la Norvegia e che “È stato completamente irragionevole prospettare la possibilità dellingresso dellUcraina nella Nato. Perché la Nato è unorganizzazione politico-militare congegnata per fare la guerra”. Non è l’unica voce illustre ad avere posizioni interlocutorie e strategiche; esiste in Europa un pensiero che muove dal pacifismo e che è contrario a fornire armi al popolo ucraino nella convinzione che questo – più che alimentare una resistenza del popolo – possa portare a effetti incontrollati: guerriglie urbane, nascita di gruppi fondamentalisti, con conseguenti escalation che potrebbero allargare i confini della guerra stessa. 

    Per la prima volta la Germania parla apertamente di riarmo e la UE, Italia compresa, decide di fornire missili e bombe a un Paese terzo. Tutto ciò al solo obiettivo di portare l’Ucraina nella Nato? Di allargare i confini della UE? La cosa che lascia più basiti è il fatto che tutti parlino di risoluzione del conflitto proponendo una ricetta, e l’unica ad avere un profilo taciturno è proprio l’UE. Nonostante il conflitto si svolga alle porte di casa di Germania e Italia, l’Unione sembra prendere decisioni al traino degli Stati Uniti e di un Biden che sembra sempre più in difficoltà internamente, dovendo fare i conti con un popolo in cui monta in maniera esponenziale una visione guerrafondaia antirussa. A tal proposito, sono indicativi i sondaggi che chiedono, con il 75% di SI, la chiusura del spazio aereo, in un Paese in cui l’inflazione viaggia a gonfie vele verso il 10% e che a fatica è uscito dall’era di Donald Trump e di Compton Hill, con una certa possibilità di ricaduta futura. 

    In tutto ciò, l’Europa dovrebbe in fretta cercare una posizione sua, che tuteli il bene collettivo e la pace, senza alimentare ulteriori scontri e comprendendo bene quali siano i valori di fondo che la guidano. Serve con urgenza un esercito unico europeo, un fisco uguale per tutti, la condivisione del debito da parte di tutta la UE e una politica estera ed economica del continente che abbia un’unica faccia e non dieci diverse posizioni.

    Servirebbe soprattutto interrogarsi seriamente se l’allargamento della UE debba essere solo un mero fattore geografico o se piuttosto questo presupponga l’accettazione di valori condivisi e inviolabili. Il superamento dei nazionalismi come prima caratteristica per farvi parte.

    Accade infatti che il blocco dell’est, dalla Polonia all’Ungheria, sia caratterizzato da forti identità patriottiche – non di rado di estrema destra – con principi inaccettabili. SI veda, per es., il comportamento della Polonia sul piano umanitario, quando per poche migliaia di profughi non bianchi e non europei non si è fatta scrupolo alcuno a lasciar morire di freddo donne e bambini. Vedi Orban e le tendenze xenofobe dell’Ungheria; Andriy Biletsky fondatore della milizia Ucraina del Battaglione Azov che ha predicato apertamente il diritto allo stupro per gli uomini come soluzione al calo delle nascite. 

    L’Ucraina va aiutata, perché il suo popolo ha sofferto per mano di Stalin l’olocausto più grande della storia, secondo solo a quello nazista. Dobbiamo essere al suo fianco e rivendicare il diritto del suo popolo all’autodeterminazione. L’invasione della Russia su uno stato sovrano è un fattore inaccettabile e Putin è un dittatore calcolatore, dalle ambizioni paranoiche e sanguinarie. Detto ciò, a guardare la storia, il popolo russo è abituato alla sottomissione e ai sacrifici, non ha mai conosciuto una vera classe media e con essa una coscienza civile e sociale. Il popolo dei villaggi è lo stesso di secoli fa ed è solo passato da uno zar all’altro, fino ad oggi. 

    Se speriamo in un rivolgimento interno dell’opinione pubblica russa, le speranze sono poche, anche perché i vari timidi tentativi sono immediatamente repressi. Abbiamo visto molte piazze che coraggiosamente hanno sfilato per la pace, ma purtroppo le città in Russia contano il giusto, rappresentando una piccola élite. Quello che legittima Putin è una sorta di adorazione nazionalista di un popolo intero chiuso nei villaggi, abituato a venerare lo Zar e a non fare domande come è accaduto per 70 anni sotto il regime sovietico.

    Serve la politica e la vecchia Europa all’altezza della reputazione che la storia le attribuisce. È così indispensabile che l’Ucraina appartenga alla Nato o sia un Paese filo-russo? Forse è il caso che l’Europa assuma una posizione decisa per ristabilire un equilibrio, chiedendo la neutralità militare del Paese per via della sua sensibile posizione geo-politica.

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