Il conflitto israelo-palestinese è sempre stato uno dei nodi più difficili da affrontare per la diplomazia internazionale. Si è sviluppato nel corso di più di un secolo di storia ed è intrecciato con le tumultuose vicende che dal colonialismo, la Guerra fredda, il Movimento dei non allineati, la fine del comunismo, l’era unipolare, le guerre per l’esportazione della democrazia hanno portato all’epoca attuale nella quale il mondo multipolare appare all’orizzonte. Il fallimento della soluzione dei due Stati ha responsabilità complesse distribuite tra Israele, l’Olp, i Paesi arabi, Hamas e una poco lungimirante politica occidentale. Provare a sintetizzare un secolo di storia è velleitario. Percorreremo tuttavia brevemente le tappe fondamentali.
Primi focolai
Il processo storico inizia nel 1917 quando il ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, scrisse una lettera a Lord Walter Rothschild, esponente della comunità ebraica inglese e referente del sionismo, nella quale, in vista della fine della Prima guerra mondiale e della spartizione dell’Impero ottomano, comunicava di voler insediare in Palestina un focolare nazionale della comunità ebraica.
Siamo in pieno periodo coloniale e nessuno si sognò di consultare gli abitanti di Palestina. Dopo la Seconda guerra mondiale e le atrocità commesse contro gli ebrei, il senso di colpa degli occidentali accelerò la decisione di venire incontro alle giuste richieste di un popolo martoriato. Complice del processo storico fu, come spesso avviene, la violenza. In questo caso terroristi ebrei, con a capo Begin, che sarebbe poi divenuto Primo Ministro di Israele, commisero atrocità (il massacro di Deir Yassin) contro i Palestinesi.
Il 14 maggio 1948 Israele proclamò la propria indipendenza e 24 ore dopo gli Stati arabi di Egitto, Giordania, Siria, Iraq e Libano si coalizzarono in un attacco feroce. Israele difese nel sangue la propria sovranità e trionfò. Duemila morti da entrambe le parti.
Il piano Onu che spartiva la Palestina tra uno Stato ebraico e uno arabo non fu mai attuato, anche per l’opposizione dei Paesi arabi che mossero guerra a Israele. Alla fine del conflitto, tuttavia, Israele avrebbe avuto il 40 per cento di terra in più rispetto al piano ideato dalle Nazioni Unite. Lo sfollamento dai territori, (750mila palestinesi si rifugiarono a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, Siria e Giordania) venne comprensibilmente vissuta dai palestinesi come una catastrofe, la cosiddetta “Nakba”.
Gli interessi geopolitici e egoistici dei Paesi arabi non aiutarono la Palestina. Il dramma dei rifugiati cominciò allora e ancora non ha avuto fine. L’Egitto occupò la striscia di Gaza. Alla Giordania fu attribuita l’attuale Cisgiordania.
Il tramonto dei vecchi imperi
La nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser, stella del nazionalismo arabo, provocò l’intervento anglo-francese, di stampo colonialista. Le due potenze imperialistiche si accordarono con Israele che conquistò il Sinai al fine di evitare bombardamenti dalla regione. L’intesa tra Unione sovietica e Stati Uniti (all’epoca entrambe potenze imperialistiche, divise da ragioni ideologiche, che si parlavano ed erano ben attente al rispetto reciproco) evitò l’allargamento del conflitto e segnò la fine degli imperi di Francia e Regno Unito che non osarono in futuro intraprendere azioni bellicistiche al fine di difendere i loro interessi senza il previo assenso degli Usa.
L’Onu (che funziona soltanto se c’è mediazione tra le potenze del Consiglio di Sicurezza) impose il cessate il fuoco. Richiamo queste ovvietà per stigmatizzare la politica occidentale di aperto confronto, di quasi guerra con Mosca, in quanto senza la cooperazione con Cina e Russia il multilateralismo non può funzionare. Nasser risultò il vincitore politico in quanto era riuscito a opporsi alle mire delle potenze imperialistiche. In realtà era sconfitto militarmente e dovette accettare il controllo Onu del Sinai. Divenne il leader del nazionalismo arabo e insieme a Tito, Mao e Nehru l’ispiratore del Movimento dei Paesi non allineati che aveva già preso vita con la conferenza di Bandung nel 1955. La crisi di Suez fu un’ulteriore prova della forza militare di Israele.
Nella competizione Est-Ovest
Dal 5 al 10 giugno 1967, la Guerra dei Sei giorni vide poi Israele uscire nuovamente vittorioso contro Egitto, Giordania e Siria. Conquistò la penisola del Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Passò da 21mila a 102mila chilometri quadrati. Gli Stati Uniti e l’Urss collaborarono alla risoluzione n. 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che sarebbe tuttavia rimasta inapplicata. Essa subordinava il ritiro di Israele dai Territori occupati allo stabilirsi di una pace giusta e alla cessazione delle attività terroristiche palestinesi.
Purtroppo la guerra non cessò mai del tutto e i Palestinesi, di fronte al trionfo della forza militare di Israele e al mancato rispetto delle risoluzioni Onu, cominciarono a radicalizzarsi fino a sostenere, appoggiati da Gheddafi e dall’Iraq, il rifiuto del riconoscimento dello Stato di Israele.
Nel 1973 la Guerra del Kippur iniziò invece con un attacco a sorpresa di Egitto e Siria. Per la prima volta, in questa quarta guerra arabo-israeliana, lo Stato ebraico mostrò qualche difficoltà dal punto di vista militare. La mediazione di Usa e Urss prevenne l’escalation. Non vi furono grandi novità dal punto di vista delle conquiste militari ma il nazionalismo arabo ne uscì rafforzato. L’Arabia Saudita , in solidarietà con l’Egitto e la Siria, e insieme ai membri dell’Opec decise un embargo dei prodotti petroliferi ai Paesi filo-israeliani. L’aumento del prezzo del petrolio mise in difficoltà le nazioni occidentali con conseguenze economiche e costi sociali in tutto il mondo.
In Israele, la debolezza sul campo sperimentata per la prima volta portò alle dimissioni di Golda Meir che, nonostante molte fragilità della sua azione politica, con la famosa frase: «Vi possiamo perdonare per aver ucciso i nostri figli, non per averci costretto a uccidere i vostri» rappresenta, rispetto ai giorni attuali, l’Israele democratico e umanista nel quale tutti crediamo.
Tentativi di pace
Difficile riassumere gli anni Ottanta, se non con alcuni eventi fondamentali. Camp David, 1978: l’accordo di pace tra Israele e Egitto normalizzò i rapporti tra i due Stati ma venne recepito dalle frange meno moderate come un tradimento della causa palestinese. Nel 1988 poi il riconoscimento da parte dell’Olp per la prima volta della risoluzione n. 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu aprì le porte al negoziato. Una parte dei palestinesi si radicalizzò nonostante l’Olp rappresentasse la Palestina come Stato osservatore alle Nazioni Unite e circa 90 Paesi riconobbero lo Stato di Palestina che avrebbe dovuto essere creato in Gaza e in Cisgiordania con capitale Gerusalemme Est. Nacque così nel 1987 Hamas, sunnita, emanazione dei Fratelli Musulmani, che non riconosceva nel suo statuto lo Stato di Israele e adottava, come oggi, tecniche terroristiche, minando la credibilità dell’Olp.
Gli accordi di Oslo, figli anche della fine della guerra fredda, fecero sperare nella possibilità di una pace in Medio Oriente, grazie a una strategia politica lungimirante di mutuo riconoscimento tra Yasser Arafat e il laburista Yitzhak Rabin. Si inaugurava l’unica strategia possibile, il ritiro di Israele dai Territori occupati in cambio della rinuncia al terrorismo da parte dei palestinesi e di una serie di garanzie di sicurezza per lo Stato ebraico. Gli accordi di Oslo del 1993 stabilirono inoltre il ritiro israeliano da Gaza e da Gerico, in Cisgiordania, che sarebbero state amministrate dall’Autorità Nazionale Palestinese. Nel 1995, il premio Nobel per la Pace, Rabin, venne ucciso da un estremista.
Il processo di pace continuò tuttavia nonostante le azioni terroristiche di Hamas cercassero di ostacolarlo. In un nuovo accordo, la Cisgiordania venne divisa in tre parti: una sotto il controllo completo dell’Anp; la seconda sotto amministrazione civile palestinese e militare israeliana; e la terza, dove già fiorivano gli insediamenti, fu assegnata al governo di Israele. Già dal 1994, la normalizzazione con la Giordania era compiuta ed era questo un nuovo segnale positivo.
Nuovo millennio, vecchie grane
Nel 2000, un nuovo accordo tra il premier Ehud Barak, che era succeduto a Shimon Peres, avrebbe potuto restituire il 90 per cento della Cisgiordania allo Stato palestinese e permettere il ritorno dei rifugiati in Palestina, non in Israele. Fu la grande occasione persa da Arafat, che temeva di dover cedere il controllo dell’Anp, la cui base non era indifferente alla strategia della forza e dell’azione terroristica rappresentata da Hamas.
Nello stesso anno, l’elezione di Sharon e la scelta della linea dura da parte di Israele accompagnò la radicalizzazione dei palestinesi. Negli anni Ottanta e Novanta, d’altronde, le violenze non erano mai cessate. Per ragioni di spazio non possiamo che menzionare la guerra al Libano, i massacri di Sabra e Chatila dell 1982 da parte delle falangi cristiane libanesi sotto la protezione delle truppe di Sharon, le due Intifade, le violenze e le morti palestinesi, l’aumento degli insediamenti.
Nel 2002, al vertice di Beirut, l’iniziativa araba approntò un piano di pace, riproposto anche nel 2006 al summit di Riad, purtroppo mai approvato da parte israeliana.
La vittoria di Hamas nel 2007 diede invece inizio agli sviluppi più recenti che hanno accantonato la questione della pace in Medio Oriente, hanno fatto perdere credibilità all’Anp, collusa con i servizi di Israele e corrotta, e quindi alla diplomazia palestinese accentuando il potere di Hamas e della lotta terroristica.
Israele ha potuto pertanto continuare le sue azioni illegali nei Territori occupati, consolidando una sorta di impunità che le viene riconosciuta dall’Occidente. La mancata applicazione delle risoluzioni Onu, il carcere a cielo aperto per la popolazione a Gaza, la condizione di apartheid nella quale vivono gli abitanti della Cisgiordania, l’aumento degli insediamenti dei coloni hanno cancellato il processo di pace e la soluzione dei due Stati.
L’indignazione dell’opinione pubblica mondiale è rimasta sopita. L’alibi assunto da Israele di non poter avere come interlocutore un’organizzazione terroristica è stato legittimato da un Occidente ottuso. Si è creduto di poter pacificare la regione con accordi bilaterali tra Stati arabi e Israele, sulla pelle del popolo palestinese e nell’oblio della sua martoriata storia. Gli eventi tragici del 7 ottobre 2023 sono figli della violenza di Stato, che per decenni si è perpetrata, a ritmi regolari, con punizioni collettive e violazioni del diritto internazionale e umanitario, a Gaza come in Cisgiordania.
Il popolo palestinese è rimasto vittima della mancanza di una strategia politica da parte dell’Occidente, di Israele e di Hamas, il cui ruolo ha di fatto sacrificato gli obiettivi della pace e della causa palestinese.
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