Nello storico incontro con video (di sapore vagamente neosovietico) di ieri, “il partito di Bibbona” ha fatto scomparire per sempre “il partito di Bibbiano”.
O meglio: Beppe Grillo ha cancellato l’ultima invettiva, l’ultima pregiudiziale, l’ultimo strappo di Luigi di Maio contro il Partito Democratico.
Quello che era accaduto nello storico incontro di marina di Bibbona, quando l’Elevato aveva costretto i suoi ragazzi a costituire il governo giallorosso, si è ripetuto.
Ed è davvero incredibile il ribaltamento di ruoli che si è celebrato in questo incontro: il garante Extraparlamentare del Movimento, storicamente predisposto all’invettiva, si ritrova nei panni del vecchio saggio che indica la via del compromesso.
Il giovane leader cresciuto nelle istituzioni è costretto ad ammainare l’ultima istanza radicale, l’ultimo sussulto antisistema. Il Di Maio abituato a dividersi tra la manovra di palazzo e la guerriglia web, è stato piegato e alla Real Politik novecentesca.
Il meccanismo su cui si regge il patto di ieri è intuibile a tutti, e si regge su questa equazione: io Grillo ti rimetto in sella, metto in riga i ribelli, metto fine alla sedizione contro di te, e tu resti l’unico capo.
Ma tu, di Maio, resti capo in nome di questa nuova linea. In quello che un tempo si sarebbe definito “commissariamento” si nasconde in realtà l’ultima crisi di crescita del Movimento Cinque Stelle.
Abbiamo scritto infinite volte in questo sito che per il movimento non c’era più scelta: il voto sulla piattaforma Rousseau come tentativo di ritorno alle origini vagheggiato dal ministro degli Esteri al grido di “corriamo da soli”, che gli faceva sognare un’ultima campagna elettorale all’insegna del né-né, era velleitario.
In questo Grillo ha ragione quando dice del suo movimento: “Siamo cambiati, non siamo più quelli di una volta”. E non c’era nemmeno dubbio che anche dal punto di vista dell’iperrealismo, le regionali dell’Emilia-Romagna, se il movimento avesse corso da solo, avrebbero prodotto tre possibili esiti suicidi su tre.
Uno: vinceva la destra, e il governo andava a casa. Due: vinceva Bonaccini senza M5s, e il Movimento andava comunque a casa. Tre: perdeva Bonaccini per colpa dei Cinque Stelle determinanti nel fargli mancare la maggioranza, e il governo – in quel caso – andava immediatamente a casa.
Ma poi c’è un altro tema di cui su TPI parliamo da tempo: giusto o sbagliato, il M5s si trova oggi in mezzo a un guado, e indietro non può tornare.
Il partito del Vaffa, che sostenne l’ascesa folgorante della leadership di Di Maio non esiste più, perché lo stesso di Maio con le sue scelte di governo lo ha smontato pezzo dopo pezzo. Sì alla Tap (per fortuna), sì alla Tav (anche se con il mal di pancia), sì all’alleanza, per ben due volte: la prima con la Lega e la seconda con il PD.
Il ritorno all’innocenza, il recupero delle origini, non era più possibile perché queste scelte ti hanno cambiato irrevocabilmente.
Aveva ragione Goffredo Bettini, grande consigliere di Nicola Zingaretti, quando mesi fa aveva spiegato che – volenti o nolenti – con la nascita del governo giallorosso, i grillini si erano collocati definitivamente nel campo del centrosinistra.
Anche se forse in quel momento non erano del tutto consapevoli dell’irreversibilità di questa scelta, stava accadendo con quel governo. Ecco perché, questo incontro tra Grillo e Di Maio non ha bisogno di retroscena: è già tutto sulla scena.
Non è un dialogo fra due leader che hanno due linee diverse, non è un redde rationem fra un discepolo ribelle e un maestro, è un cerchio che si chiude. È il Movimento 5 Stelle che fa i conti definitivamente tra la nostalgia di quello che era, e l’ineluttabilità di quello che è diventato oggi.