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    Anche Greta cede alle regole del mercato: registrato il marchio “Greta Thunberg”

    Di Elisa Serafini
    Pubblicato il 31 Gen. 2020 alle 17:52 Aggiornato il 18 Feb. 2020 alle 14:31

    Alla fine ha ceduto anche lei: l’attivista ambientalista Greta Thunberg ha ceduto alle regole del mercato e ha scelto di registrare il marchio “Greta Thunberg” e “Fridays for future”. La minaccia, sostiene l’attivista su Instagram, è che “alcune persone utilizzino il nome per accreditarsi con politici e artisti” e che, ancora, “alcune aziende usino Fridays For Future per fare soldi”.

    Ho fatto sinceramente fatica a trovare aziende che abbiano utilizzato questi due termini in strategie di marketing. Quello che invece si trova sul web, nelle scuole e nelle piazze sono migliaia di gruppi spontanei, eventi, seminari, nati sull’onda dell’attivismo della giovane svedese. Registrare un marchio è un messaggio molto forte: significa “questo movimento è mio”. Significa che per utilizzarlo bisognerà mandare una richiesta formale e plausibilmente riconoscere una forma di compensazione.

    La registrazione di un marchio, nei movimenti globali, è un fenomeno assai diffuso. Non potendo monetizzare l’intangibilità di un prodotto, si prova a venderne la reputazione.

    Il più clamoroso caso di registrazione di un brand-movimento, è stato quello dello yoga: l’antica disciplina indiana è stata oggetto di un tentativo di brevettazione da parte prima del Governo indiano, e poi di alcuni “guru” del settore. Poi è venuto il tempo dello Zumba, uno dei casi più straordinari di monetizzazione di un’invenzione immateriale, ma con potenza globale. Se ci pensiamo bene lo Zumba, nota disciplina artistico-sportiva, è una specie di movimento: l’obiettivo è quello di fare sport divertendosi, ballando a tempo di musica. Eppure oggi qualunque persona voglia utilizzare questo termine deve pagare un’azienda che detiene i diritti sul marchio.

    Pensate se qualcuno avesse registrato il marchio della pallavolo o del calcio. Greta arriva, alla fine, a fare ciò che farebbe una qualunque impresa: tutelare i propri interessi finanziari e reputazionali e decidere quanti e quali risorse immettere sul mercato. Un approccio legittimo, ma del tutto differente da quello che si sarebbe aspettato una comunità aperta ed inclusiva come quella dei giovani del Fridays for Future, e, in generale da chiunque abbia partecipato alla creazione e promozione di movimenti spontanei.

    Nei movimenti spontanei politico-sociali, l’atteggiamento di “gelosia” e protezione verso la propria idea o il proprio nome segna, generalmente, la fine del movimento spontaneo (e quindi quello più rumoroso) e l’inizio della burocrazia, che però può rendere di più, in termini finanziari. Questo è accaduto in USA con il movimento anti-tasse Tea Party, e in misura non del tutto diversa, anche con l’eterna guerra del Partito Radicale – Radicali Italiani. Sono marchi registrati anche il “Fight for our lives”, il movimento anti-armi americano (però molto flessibile nell’uso) e persino “Julian Assange”, il nome del fondatore di Wikileaks.

    Il dilemma tra promuovere lo spontaneismo e tutelare o valorizzare un marchio e un nome è del tutto legittimo. Resta da capire quanto questa scelta gioverà alla causa ambientalista.

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