La democrazia parlamentare italiana non regge più. Se devo usare parole più schiette, la nostra repubblica rischia di tirare le cuoia e diventare inutile, anzi dannosa agli altri paesi europei. Il suo apparato costituzionale è invecchiato senza rimedio. Vediamo un insieme di potentati che si combattono in un disordine sempre più caotico. Qualunque crisi politica, a cominciare dalla scelta di un nuovo governo, si trascina in un caos difficile da rimettere in ordine. L’abbiamo constatato anche in questo agosto quando si è trattato di decidere se il governo Conte doveva rimanere in sella oppure cedere il passo a un nuovo esecutivo. Nato dall’incontro di due forze politiche molto diverse, il Partito democratico e i Cinque stelle, ma costrette a un’alleanza che a entrambe sembrava innaturale.
È sempre stato così? No. Quando ho iniziato a fare il giornalista in una scuola ferrea come La Stampa di Giulio De Benedetti, un vecchio collega mi disse: “Pansa ho saputo che vuoi occuparti di politica italiana. Secondo me sbagli. La politica, soprattutto quella della nostra Italietta, è noiosa. Saresti costretto a occuparti dei soliti personaggi: De Gasperi, Togliatti, Nenni, Saragat e delle loro truppe. Invece devi gettarti nella cronaca: è quella che racconta l’esistenza degli esseri umani. Troverai lì i personaggi più imprevisti e le storie più drammatiche…”.
Quel collega aveva ragione. Ero un semplice praticante degli interni, ma il direttore della Stampa aveva compreso subito che ero un giovanotto sveglio e non doveva limitarsi a descrivere i litigi dei boss politici degli anni Sessanta. E volle mettermi alla prova nell’ottobre del 1963 quando ci fu la catastrofe del Vajont e più di mille persone morirono in un paese del Veneto, Longarone, in provincia di Belluno, travolto dalle acque di una grande diga colpita da una frana gigantesca.
Il terribile Gdb mi fece partire subito per il Veneto, dentro un’automobile guidata da uno spericolato pilota che di solito seguiva il Giro d’Italia. Avevo 28 anni appena compiuti. Con me viaggiava il numero uno degli inviati speciali della Stampa: il grande Francesco Rosso, che aveva visto più guerre di un militare professionale.
Rimasi a Belluno più di tre settimane e scrissi anche due articoli al giorno. Ma soprattutto imparai che la cronaca era una fonte continua di sorprese. Però bisognava andarle a cercare con molta umiltà e raccontarle con semplicità. Il mio primo articolo dal Vajont cominciava con poche parole che in seguito vennero citate nelle scuole di giornalismo: “Scrivo da un paese che non esiste più…”. Eppure in quel paese ormai inesistente i supersiti accolsero a pietrate i politici che si erano decisi a farsi vivi.
Da quel momento ho compreso che anche la politica italiana, una piccola faccenda rispetto alle lotte interne a nazioni ben più importanti della nostra, ci può regalare delle sorprese. È quanto accaduto nella notte a partire dalla domenica 25 agosto e il lunedì 26. Il leader del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, si è rimangiato il veto che aveva messo con solennità, in diretta televisiva, alla ricandidatura di Giuseppe Conte. Che adesso è ritornato alla testa del governo. Questa volta giallo rosso dopo aver guidato il giallo verde, che vedeva alleati i grillini di Luigi Di Maio e i leghisti di Matteo Salvini. Il capitano della Lega dovrebbe dunque restare nella gabbia delle minoranze che non contano nulla e questo probabile evento mi rallegrerà. Il motivo l’ho spiegato nel mio libro più recente, Il Dittatore, pubblicato in giugno dalla Rizzoli.
Se davvero Conte guiderà anche questo governo che vedrebbe insieme i Cinque stelle e il Partito democratico, sarà indispensabile studiare a fondo il personaggio del premier. Nella sua prima esperienza a Palazzo Chigi l’abbiamo preso sottogamba un po’ tutti. Compreso il sottoscritto dal momento che l’ho ritenuto poco più di una nullità, un avvocato di provincia con un solo interesse: l’eleganza, le cravatte, il fazzolettino bianco nel taschino della giacca sempre blu. Faccio ammenda per aver preso un abbaglio tanto pesante. Conte ha dimostrato di non essere affatto così. E un assaggio l’abbiamo visto il 20 agosto al Senato quando ha messo in riga Salvini.
Ma per Conte è adesso che verrà il bello. La sua carovana di partiti mi sembra poco salda. È un insieme di bande guidate da piccoli leader che non nascondono di avere grandi ambizioni. Vi fidereste di un signore inutile e presuntuoso come Luigi Di Maio? O di un oppositore che ha perso la testa come Salvini? E che cosa sta meditando un disperato come Renzi? Certo, possiamo contare su un uomo come il presidente Mattarella, ma il capo dello Stato ha nelle mani soltanto un’arma: quella di rimandare tutti a casa e noi a votare.
Da giovanissimo inviato a Longarone raccontavo: “Scrivo da un paese che non esiste più…”. Posso soltanto sperare di non dover pensare lo stesso di un paese molto più grande: la tragica Italia dell’agosto 2019.
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