Questa foto la devono vedere tutti: Shireen Abu Akleh aveva 51 anni ed è stata uccisa mentre documentava un’operazione delle forze armate israeliane nella città palestinese di Jenin. Il giubbotto anti-proiettile con la scritta “Press” (Stampa) non l’ha protetta, l’ha resa un bersaglio. Come il collega di al-Jazeera, Ali al-Samoudi, ferito subito prima da un colpo alla schiena ma sopravvissuto agli spari dei militari israeliani, il che fa tramontare l’ipotesi di un proiettile vagante.
Abu Akleh era un volto familiare per i telespettatori del mondo arabo, a cui negli ultimi 25 anni ha raccontato l’occupazione dei territori palestinesi ad opera di uno Stato che, nella quasi totale indifferenza della nostra parte di mondo, continua a violare le risoluzioni internazionali e i diritti dei propri vicini.
All’omicidio, compiuto «a sangue freddo» secondo l’emittente al-Jazeera, le forze di sicurezza israeliane hanno aggiunto lo sfregio dell’irruzione nell’abitazione della vittima e l’ordine a familiari e conoscenti in lutto di non favorire assembramenti, con il proposito di evitare proteste e disordini e di aggiungere al silenzio dei morti quello dei vivi. Un obiettivo finora mancato vista l’indignazione internazionale e le richieste di «indagini approfondite» arrivate persino dalla Casa Bianca, che non ha potuto ignorare il fatto che la giornalista avesse passaporto americano. Sebbene l’inchiesta sia appena all’inizio, la storia non ci permette di essere ottimisti. Non solo perché le dichiarazioni indignate per l’omicidio arrivano da Paesi, Italia compresa, che non hanno mosso un dito per imporre a Israele il rispetto dei diritti dei palestinesi, ma soprattutto perché in circostanze simili non hanno saputo ottenere giustizia dalle autorità israeliane.
Un caso su tutti: l’uccisione di Raffaele Ciriello, freddato vent’anni fa da cinque proiettili sparati da una vedetta di un carro armato israeliano che il fotoreporter lucano stava filmando con una telecamera grande quanto un pacchetto di sigarette. Ufficialmente Ciriello è morto per un errore, scambiato per un palestinese che brandiva un lanciarazzi. Una “verità” accettata obtorto collo anche dalla magistratura italiana, dopo il rigetto della richiesta di rogatoria internazionale da parte del governo di Tel Aviv nonostante il trattato di collaborazione giudiziaria stipulato con l’Italia. Così il responsabile non sarà mai identificato né pagherà per l’omicidio del giornalista, nel silenzio assordante della politica.
Anche Abu Akleh, proprio come il suo popolo, rischia di restare vittima della gerarchia dei carnefici che, per ragioni di interesse, impedisce alla comunità internazionale di condannare con la stessa forza i medesimi crimini a seconda se questi siano compiuti da Paesi alleati o nemici. Come se violare la sovranità di un’altra nazione, attuare politiche di apartheid contro un intero popolo o sparare ai giornalisti fosse questione di punti di vista.