Il fumo protegge dal Coronavirus? L’ipotesi avanzata in uno studio francese
“Poi moriremo sicuramente di qualcos’altro, magari fra cinquant’anni, ma per ora sembra proprio che siamo protetti”. Un medico impiegato in un importante centro Covid lombardo chiudeva con questa battuta uno scambio di messaggi avvenuto con il sottoscritto il giorno 31 marzo. “Non so se tu sei fumatore, io sì, beh pare che il fumo sia un fattore protettivo (nei confronti del Covid-19, ndr). Lo dicevo già settimane fa. Sembra ci sia un meccanismo che dà dei benefici”.
Non certo la nota vocale del complottista anti-rettiliano, ma nemmeno uno studio scientifico. Eppure significa che già da tempo, da più di un mese, l’ipotesi che il fumo possa in qualche modo “proteggere” dall’infezione del Coronavirus si sta facendo strada in ambiente medico con esperienza diretta sul campo. Ieri è balzata agli onori della cronaca una pubblicazione francese, frutto di uno studio effettuato su 482 pazienti Covid monitorati dall’ospedale Salpetriere di Parigi. Questo studio ha riscontrato come solo il 4,4% dei positivi domiciliati sia costituito da attuali fumatori, e la percentuale è simile anche tra i pazienti ospedalizzati: il 5,3%. La percentuale di fumatori in Francia supera il 25% della popolazione nazionale, ed è per questo che i dati dello studio sono clamorosi: i fumatori si ammalerebbero meno di Coronavirus rispetto ai non fumatori.
La pubblicazione, conseguente allo studio, prova quindi ad affermare che la nicotina abbia un ruolo positivo nella lotta al Coronavirus. Si intitola Un’ipotesi nicotinica per il Covid-19 con implicazioni preventive e terapeutiche e porta la prima firma di Jean-Pierre Changeux, un pluridecorato neuroscienziato e biologo già vincitore del Wolf Prize per la medicina, secondo per importanza dopo il Nobel. Nel campo della biologia è diventato famoso per l’individuazione dei recettori della nicotina (la sua scoperta del recettore nicotinico acetilcontina, secondo il prestigioso istituto Pasteur, ha rivoluzionato l’intero campo delle neuroscienze), e sono proprio questi ad essere i protagonisti della controversa pubblicazione.
Che, nell’astratto, dice essenzialmente questo: “Basandoci sulla letteratura scientifica e su nuovi dati epidemiologici (quelli dei 482 infetti dell’ospedale Salpetriere) che rivelano che lo stato di fumatore sembra essere un fattore protettivo contro l’infezione di SARS-CoV-2, ipotizziamo che il recettore nicotinico acetilcolina giochi un ruolo chiave nella fisiopatologia dell’infezione da Covid-19 e possa rappresentare un obiettivo per la prevenzione e il controllo dell’infezione da Covid-19”. Insomma, da profani del linguaggio scientifico, il recettore della nicotina sarebbe quello a cui il Coronavirus preferisce aggrapparsi per diffondersi nell’organismo. Trovandolo già occupato dalla nicotina, il virus non si diffonde. Il verbo “ipotizziamo” resta imprescindibile.
La smentita dell’OMS non tarda ad arrivare. “Gli esperti sanitari hanno avvertito che i fumatori con Covid-19 probabilmente soffrono di condizioni più gravi rispetto agli altri e che queste potrebbero portare a morte prematura”. Probabilmente, potrebbero. Dunque affermazioni dubitative.
Dando poi sostanzialmente la colpa all’industria del tabacco. Sarebbe plausibile, se non fosse che il professor Jean-Pierre Changeux con i suoi studi sulla dipendenza da nicotina è forse il nemico numero uno delle multinazionali del tabacco, tanto da esser stato addirittura premiato nel 2000 con il Premio Langley, destinato a chi porta alla luce scoperte fondamentali nella lotta contro la dipendenza da nicotina e tabacco, oltre ad esser citato come fonte in innumerevoli libri su “come smettere di fumare” e dai rapporti dell’Unione Europea sulla piaga del fumo. Non esattamente il prototipo del lobbista pagato da Philip Morris.
Anche perché queste multinazionali, a cui certo non mancano i mezzi economici e l’eventuale potere persuasivo, non sono riuscite a convincere alcun medico, scienziato, divulgatore negli ultimi 3 mesi a perorare una tesi simile. Anzi, del rapporto tra fumatori e Covid non sappiamo niente, mentre sappiamo tutto il resto. Sappiamo quanti anni hanno gli infetti, dove abitano, conosciamo il loro sesso ma soprattutto tutta la lista di patologie concorrenti o pregresse che gravano sul loro fisico. Sappiamo che tra i deceduti era molto comune l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica, la fibrillazione atriale, il cancro. Sappiamo che molti erano obesi, molti soffrivano di diabete, o di asma. Ma non sappiamo quanti siano, tra i positivi o i morti, gli “attualmente (o, per i deceduti, al momento della contrazione della malattia) fumatori”, cioè quelli che secondo lo studio francese sarebbero più protetti degli altri e che secondo l’Oms sono più esposti alla malattia. L’incidenza fumo/Covid è sconosciuta.
E questo è singolare perché qualsiasi patologia anche solo remotamente collegata al fumo viene da sempre (e giustamente) evidenziata con grande eco mediatica. Ovviamente i tumori, ma tra le indicazioni presenti sui pacchetti di sigarette c’è di tutto, persino l’impotenza e la cecità. Allora perché nessuno, in un momento in cui un virus si propaga nel mondo e spaventa l’umanità, non ha colto l’occasione per dire che il fumo è ancora più pericoloso? Perché il Coronavirus non viene utilizzato con più vigore come deterrente per chi fuma? Forse perché non si è certi che il fumo sia davvero un fattore di rischio, secondo i pochi dati a disposizione. Perché i pazienti non vengono catalogati, come in maschi o femmine, vecchi o giovani, sani o malati, anche in fumatori o non fumatori? C’è chi nel campo medico ipotizza che probabilmente il risultato non piacerebbe alla comunità scientifica, e a ragion veduta. Se, dopo un campionamento anche abbastanza rapido da effettuare (fuma? Sì, no), si giungesse alla conclusione che i fumatori sono meno colpiti dei non fumatori dal contagio, il messaggio sarebbe ambiguo e pericoloso.
“È pericoloso anche solo ventilare che una pessima abitudine come il vizio del fumo possa aiutare a fronteggiare quella che oggi è la principale emergenza epidemica” ha detto all’Agi Giovanni Maga, direttore dell’istituto di Genetica Molecolare del CNR di Pavia. È pericoloso, aggiungiamo noi, perché in Italia i decessi legati al fumo sono 83.000 all’anno, ben più dei 25.000 attualmente legati al Coronavirus. E perché il fumo crea dipendenza, causa patologie dannose per chi fuma e costose per il sistema sanitario mondiale. La domanda però è: davvero, anche qualora si accertasse che il fumo è un fattore protettivo, i cittadini inizierebbero a fumare? Appare piuttosto improbabile. Sembra invece più probabile che la notizia, se confermata, potrebbe rappresentare un ulteriore disincentivo a smettere per i vecchi fumatori. In ogni caso, sia la tesi francese portata avanti da un luminare nella lotta al tabagismo che la contro-tesi dell’Oms al momento restano nel campo delle mere ipotesi, visto che non esiste uno studio validato in tal senso. E certo è che “il fumo fitto” della scienza sulla questione arrecherà gravi danni alla salute della scienza e della comunità, sia se lo studio francese si rivelerà una bufala, sia se invece si dovesse scoprire che ha un fondamento di verità.
Leggi anche: 1. Coronavirus: il fumo protegge dal Covid-19? L’ipotesi in uno studio francese / 2. Uno studio conferma: il fumo è correlato alle forme più gravi di Coronavirus
Leggi l'articolo originale su TPI.it