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    Fuga dei cervelli: il dramma dei talenti che non tratteniamo pesa sul futuro del Paese

    Di Giovanni Crisanti
    Pubblicato il 19 Ago. 2024 alle 15:25 Aggiornato il 19 Ago. 2024 alle 15:35

    La pluricitata fuga dei cervelli è sempre di più sulla bocca di tutti, ma perché? Da chi vi si riferisce in maniera romantica, mixando le tristezze e i malcontenti del lasciare il luogo dei propri affetti, a chi ne fa una questione economica, talvolta conservatrice con qualche tocco di nazionalismo, alludendo al fatto che chi nasce e cresce in Italia debba contribuire allo sviluppo della Nazione, è un problema che interessa tutti. Istruiti e meno istruiti, ricchi e poveri, nord e sud: per un giovane che entra in Italia da un Paese europeo, diciassette espatriano verso il resto dell’Europa (dati Eurostat 2023). E sono numeri probabilmente incompleti, come afferma Federico Fubini sul Corriere  – L’Economia, secondo cui gli emigrati “reali” potrebbero arrivare a 3,2 volte quelli dichiarati da Istat (ottobre 2023).

    Un peccato, certo, con un costo salatissimo di 4.5 miliardi di euro annui per lo Stato, secondo il “Rapporto Italia Generativa” dell’Università Cattolica di Milano. Mettendo da parte considerazioni puramente politiche, effettivamente siamo di fronte ad un investimento che non ha un ritorno positivo. Specie perché, tendenzialmente, chi esce ha una formazione molto maggiore rispetto a quei – pochissimi – giovani che entrano.

    È per questo che oltre che lavorare sul far rientrare in Italia i cervelli già fuggiti – strategia che l’attuale governo ha deciso di depotenziare non poco lo scorso anno – bisognerebbe costruire un ecosistema attrattivo e rassicurante per trattenere coloro i quali vogliono andare all’estero esclusivamente per le migliori condizioni lavorative offerte. E non per un discorso conservatore o nazionalista, ma per un principio semplice: chi ha vissuto e studiato in Italia deve avere il diritto di poter contribuire alla propria comunità e vivere serenamente la propria esistenza qui, senza dover scappare per pagarsi un affitto o sostenere una famiglia. Chiaramente incide il discorso dei salari, i meno cresciuti in Europa negli ultimi anni, su cui bisogna lavorare con politiche fiscali e investimenti per incentivare una produttività maggiore e allo stesso tempo equa. Ma la fuga dei talenti si combatte anche costruendo condizioni di lavoro superiori, migliorando l’equilibrio vita privata/lavoro, i contratti stabili, le politiche fiscali, le tutele per i liberi professionisti.

    Se è vero che tre ragazzi su dieci sarebbero intenzionati a emigrare per migliori condizioni di lavoro e di vita, superare il divario di genere e incrementare l’autonomia finanziaria (Rapporto 2021 Fondazione Visentini/ Luiss), allora è da questo che bisogna ripartire: rendere il terreno fertile per un Paese che investa su una comunità globale, aperta, ma allo stesso tempo sostenibile. Altrimenti continuerà ad aumentare il calo demografico e gli investimenti renderanno sempre meno, riducendo l’Italia non solo a “fanalino di coda”, bensì a dipendente dalle economie e dalle industrie che corrono di più. Le carte le abbiamo, occorrono le strategie.

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