Ha vissuto da profeta di un nuovo tempo, e se ne è andato da profeta del nuovo tempo, con un finale avvolto nel mistero, ed un’ultima canzone segnata da un titolo emblematico, che dice tutto: “Torneremo ancora”. Franco Battiato è stato per l’Italia del fine secolo (Novecento), nella musica e nella cultura pop, come il taglio nella tela di Lucio Fontana nell’arte. Uno strappo, un salto epocale, un punto di ripartenza.
È con “La voce del padrone” che un ex emigrante siciliano a Milano (spiantato), un ex autore astruso (e misconosciuto), un ex strumentista di talento (eccentrico), ex autore oscuro (e incompreso), divenne improvvisamente una star Mainstream, un guru, una icona.
Se pensi a quel Battiato nel 1980, capisci che le aveva azzeccate tutte: le canzonette dell’album, che si diffusero ovunque, portate dalla radio come il vento, e diventate successi da classifica uno dopo l’altra, Cuccuruccuccú.
I video (“Non sopporto i cori russi”), che erano una novità assoluta, e che lui già padroneggiava con gusto scenico ed irriverente. Il colbacco un po’ punk che divenne un simbolo, gli occhiali da sole “per avere più carisma/ e sintomatico mistero”. Gli arrangiamenti, che divennero un marchio di fabbrica inconfondibile, i segnali premonitori di un talento assoluto.
È a partire dal quel 1980 che un uomo, fino ad allora noto per molti buoni album, alcuni ottimi successi, alcune sperimentazioni iniziatiche e tante canzone da autore (ma scritte per altri), piantò sul punto di comando del paese la sua “Bandiera Bianca”. E nulla fu più come prima.
L’Italia segnata dal lutto e dalle morti sarebbe uscita dalla lunga notte degli anni di piombo – simbolicamente – solo con un Mondiale a colori e con “La voce del padrone” di Franco Battiato: usciva dal dominio dell’ideologia con l’irriverenza, usciva dalle dodecafonie e dalle nenie intellettualoidi con i cori e gli archi, dalle melodie sanremesi sdolcinate con quel raro mix di classica, di elettronica e di pop che rendeva vecchio qualsiasi altro suono.
Lo stile di Battiato era Battiato, e bastava una sola nota per accorgersene. Un anno dopo il Maestro (che tale divenne in una sola stagione) si permetteva di scalare le classifiche sia con una canzone affidata a Giuni Russo sia con un singolo scritto per Alice sia con i successi interpretati da se stesso. Guardavi la classifica e c’era solo lui. Ti affacciavi in Europa e non potevi non ricordare quel festival in cui “I Treni di Tozeur” (cantata con Alice) riavevano riscosso riconoscimenti in tutto il continente.
Battiato fu rivoluzionario per la musica italiana perché – come abbiamo visto – cambiò contemporaneamente i contenuti ed i suoni: portava sul palcoscenico le sue più raffinate passioni (la cultura dei sufi, i libri di Gurdjeff, la passione per la letteratura esoterica, il mito battesimale della Mesopotamia) e li trasformava in una miscela accattivante e apparentemente accessibile a tutti.
Prendeva una preghiera – “La Cura” – e la trasformava in una canzone d’amore, prendeva un eroe mitologico (Gilgamesh) e lo trasformava in un’opera lirica, prendeva l’ombra mitologica (non politica) della rivoluzione russa e ci scriveva sopra una delle più struggenti ballate romantiche (“Prospettiva Nevskij”). Prendeva un intellettuale siciliano ermetico come Manlio Sgalambro e lo trasformava nel suo paroliere, e in un personaggio inseguito dalle tv.
Si potrebbe fare l’elenco di tutto quello che Battiato ha fatto, detto e scritto, con intuito da pioniere, e si arriverebbe (come diceva lui) “all’imbrunire”. Ma non si può dimenticare che nel biennio di Mani Pulite l’uomo della dissacrazione e della trasgressione con una canzone – “Povera Patria” – divenne di nuovo, per una volta, voce e bandiera di una nazione. Di nuovo profeta di un sentimento collettivo.
Cantava: “Nel fango affonda lo stivale dei maiali/ Me ne vergogno un poco e mi fa male / Vedere un uomo come un animale”. Ed era il racconto di un paese sull’orlo del collasso morale (ancora una volta) che Michele Santoro aveva scelto come indimenticabile sigla del suo programma. Battiato aveva trovato il suo “centro di gravità permanente”, ma non aveva smesso di cercare (e di rischiare).
Fu investito dalle polemiche avvelenate anche durante la stagione delle Olgettine, per aver denunciato con una coraggiosa provocazione da intellettuale senza rete (“le troie”) la sua rabbia contro il degrado della fase terminale del berlusconismo. Dopo quella frase sulle donne al servizio del potere, e la montagna di attacchi che ricevette, venne ospite in un mio programma e si difese, senza nascondere la sua amarezza: “Ho detto quello che pensavo. Quello che andava detto. Non mi vergogno di nulla”.
Lasciò l’incarico di assessore alla Cultura che aveva assunto in Sicilia, tornò a dedicarsi esclusivamente alla musica, e dopo pochi anni si ritrovò stretto nella morsa della malattia più terribile per un uomo che vive del suo cervello e della sua produzione intellettuale: quella degenerativa.
L’ultimo lampo di luce è quell’inedito recuperato dai suoi collaboratori, la canzone “Torneremo ancora”, scritta insieme al fedelissimo Juri Camisasca. È l’ultimo tocco del Maestro, l’ultimo taglio nella tela, incartata però in una melodia dolcissima, come se fosse una quintessenza di tutta la sua produzione: ed è un piccolo capolavoro.
Il racconto dei “Migranti di Ganden” (questo doveva essere il titolo) esuli e dispersi, che rappresentano l’orrore per tutte le guerre, e l’amore di Battiato per la cultura che sopravvive al diluvio, è un gioiello. Il brano è inserito in un disco del 2019 – l’ultimo – che esce quando il Maestro è già malato.
In questo disco, insieme a questa canzone, ne sono state raccolte e riarrangiate altre quattordici, tutte unite da un nuovo sound unitario, tutte eseguite insieme alla London Simphony Orchestra, e tutte collegate, nella sterminata produzione del Maestro, da quell’identico senso mistico e insieme civile che sono la cifra del battiatismo più alto.
È un messaggio: la lettera postuma, che ci arriva da Battiato. Il suo addio. E – solo adesso che lui è libero dal suo corpo terreno – possiamo attendere insieme che torni finalmente l’era del Cinghiale Bianco. Immersi e protetti nella sua musica.
Leggi l'articolo originale su TPI.it