Le lingue sono creature vive e mutevoli. Sono fatte di contaminazioni, incontri e prestiti e la nostra, sviluppatasi in una penisola in cui hanno abitato nei millenni popoli diversi, ne è un esempio. Se il latino è lo zoccolo duro dell’italiano contemporaneo, non mancano le parole che provengono dal greco in primis, ma anche dall’ebraico, dalle lingue celtiche e persino dall’arabo.
A secoli di distanza dalle prime testimonianze del volgare italiano, la nostra lingua continua a cambiare insieme alle abitudini, all’evoluzione tecnologica e sociale di noi italiani e, con essa, a prendere in prestito parole dall’estero. E in una società rapida e iperconnessa come quella di oggi, tali prestiti arrivano alla velocità della luce, indicando talvolta concetti e strumenti per noi nuovi e per cui non esiste un equivalente in italiano.
Lo stesso Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia che ha da poco proposto una legge per limitare i “forestierismi linguistici” che ha fatto molto discutere, ha chiarito come parole che non hanno un equivalente in italiano non possono essere tradotte e, anzi, evitarle creerebbe una confusione che andrebbe contro gli effetti auspicati dalla sua proposta. E infatti, come tradurremmo parole come “computer”, “smartphone” o “streaming”? Un creativo potrebbe anche cimentarsi a trovare un equivalente, ma non è scontato che il risultato sia efficace. Eppure sarebbe divertente, quasi rivoluzionario, se qualcuno ci provasse.
Quando, durante il regime fascista furono promosse politiche per italianizzare i vocaboli stranieri, molti dei risultati furono goffi e caddero nel dimenticatoio, come la bevanda arlecchina al posto dei cocktail. Altri, come il d’annunziano “arzente” per il cognac, furono forse così aulici da essere relegati a un linguaggio oggi altisonante. Ci furono poi quelli che ebbero successo, come il “tramezzino”, nato per sostituire l’inglese “sandwich”. E forse anche questo legame con una stagione drammatica della nostra storia contribuisce a rendere un tabù quello che potrebbe essere un semplice esercizio creativo. Oltre al rischio comunque innocente di risultati non all’altezza o che possano passare per forme di scimmiottamento.
Oggi, però, siamo di fronte a un fenomeno opposto, per cui anche parole che hanno un equivalente italiano ben radicato vengono trasformate in inglese per via della grande potenza di questa lingua nei media e nel commercio. E così per praticità, parliamo tranquillamente di “like” e “share” sui social, sul lavoro diventano importanti “task” e “skill”, mentre nelle pubblicità le scarpe per andare a correre sono diventate “da running” e i nostri animali domestici dei “pet”.
Queste parole cambieranno l’italiano, o saranno solo di passaggio? Sarà un disastro per la nostra lingua o no? Lo scopriremo solo parlando, ma la creatività non può essere un tabù, neanche se il risultato dovesse essere ridicolo. D’altronde, se siamo uno dei pochissimi Paesi in cui il calcio non si chiama né “football” né “soccer”, vuol dire che se ci teniamo qualcosa possiamo inventarlo, senza per forza bisogno di leggi.