La catastrofe della Lombardia è il collasso di un sistema, di un governo, di un modello sanitario, di un apparato di simboli, e ovviamente anche di un uomo, Attilio Fontana. La parabola del governatore segue quella del suo sistema di potere, ed è – solo in parte – il prodotto di una inchiesta.
Fontana non è in ginocchio oggi perché indagato (la sentenza è ancora lontana dall’essere pronunciata), ma questa inchiesta in cui è coinvolto è piuttosto il prodotto di una selva di balle conclamate, giustificazioni inverosimili, scuse fantasiose che non stavano già in piedi da sole, sulla vicenda dei camici e su quella del fantomatico conto svizzero.
Non sono qui a scrivere questo articolo, dunque, perché è intervenuto un magistrato: semmai è il contrario. È la magistratura che è dovuta intervenire perché Fontana aveva già compiuto un reale harakiri mediatico cercando di imbastire una difesa.
Ma stiamo ancora, per alcune righe, alla cronaca. Quando era scoppiato lo scandalo della fornitura sanitaria, il presidente della Regione Lombardia ci aveva detto di aver pagato il contributo da un conto della madre. E noi avevamo già detto, e scritto su questo sito (a caldo, immediatamente), che quella ci sembrava una spiegazione inverosimile.
Ora i magistrati ci dicono, addirittura, che non appartiene alla madre del presidente della Regione Lombardia la firma che appare in calce al documento in cui è stato aperto (nel 2005) il secondo conto svizzero a lei intestato, emerso negli accertamenti.
E dunque di chi è quella grafia? Basta solo questa scoperta, ipotizzata nell’inchiesta che riguarda Fontana, per aprire scenari incredibili sul governatore e su quello che ci ha raccontato fino ad oggi.
Vi ricordate cosa aveva detto Fontana su quel conto aperto presso l’Ubs di Lugano, in Svizzera? Che era frutto del lavoro della madre, una 82enne dentista pensionata, che risultava titolare sia di questo che del primo conto aperto nel 1997.
Fontana aveva poi spiegato di essere venuto a conoscenza dell’esistenza di questa fortuna solo alla morte della madre – nell’agosto del 2015 – e di aver usufruito a settembre di quell’anno della legge sulla “voluntary disclosure” per regolarizzare quei capitali di cui si era ritrovato inconsapevolmente erede. Un tesoretto mica male: 5,3 milioni di euro che, secondo il governatore, erano “i risparmi” di famiglia (ovviamente mai dichiarati al Fisco).
Sorpreso dalle reazioni della stampa (ovviamente ci chiedevamo allora: ma quanto deve guadagnare una dentista per “risparmiare” 5,3 milioni di euro?), il presidente lombardo aveva fatto una nuova capriola logica, spiegando ovviamente che tutto era stato risparmiato senza evadere un solo centesimo. E addirittura aggiungendo: “Ma figuriamoci! i miei – diceva a La Repubblica – hanno sempre pagato tutte le tasse, mio papà era dipendente della mutua, mia madre una superfifona”.
Figurarsi. Il che rendeva ancora più inverosimile, però, anche l’accesso allo scudo fiscale. Sembrava inverosimile, e infatti non era vero. Quello che i magistrati hanno scoperto, in più, è che, di quei 5,3 milioni del secondo conto svizzero della madre, solo 3 milioni risultano provenire da un giroconto dal primo deposito del 1997.
Ma a questo punto, data l’enormità delle cifre, quei soldi potrebbero essere solo arrivati da un altro conto (quale?) o essere stati aggiunti “a mano” con nuovi versamenti (ovviamente illeciti). Ma, di nuovo: soldi provenienti da quale reddito di famiglia (per di più di una famiglia che secondo Fontana “ha sempre pagato le tasse”?) visto che non potevano essere suoi?
La terza ipotesi logica – l’unica altra possibile – è che questi 2,3 milioni di euro, nel lontano 2005, provenissero da un terzo conto corrente estero, che non è mai emerso, nemmeno con lo scudo fiscale. Ma ovviamente questo significherebbe che c’è stata una grave omissione nella relazione della “voluntary disclosure” presentata al Fisco (ed era un obbligo).
Prima ancora che si identifichi esattamente la fonte del gettito, è evidente che bastano questa firma, questi flussi e queste cifre per far crollare definitivamente la teoria dei “risparmi materni”. Domanda: da dove arrivano allora i soldi del tesoretto di Fontana?
Prima ancora di avere una risposta a queste domande (ci proveranno in processo i magistrati a fare chiarezza), l’opinione pubblica ha già la certezza che quei soldi, usati per sanare un pasticcio creato durante la pandemia con l’acquisto della famosa partita dei camici dalla società di un parente, non hanno l’origine che il presidente della Regione Lombardia ha indicato fino ad oggi.
Basterebbe questo per mettere in discussione il suo ruolo. Ma sulle modalità di lievitazione di questo conto – mettendo in fila i dati noti – ha scritto con leggera, magistrale e caustica ironia, sul Corriere della Sera, Luigi Ferrarella. Modalità che stupiscono “tanto più per il curioso progredire dell’età, insieme alle iniziative a schermo del Tesoro: prima il conto svizzero nel 1997, a 75 anni, poi, a 82 anni, nel 2005, il controllo del conto svizzero da parte di una società per azioni alle Bahamas, la Montmellon Valley, a sua volta controllata a Vaduz nel Liechtenstein dalla fondazione familiare Obbligo, e infine, a 91 anni, nel 2014, l’inserimento (sotto la Fondazione Obbligo e sopra la società Montmellon Valley) del Tectum Trust”.
Una storia che farebbe della madre di Fontana, pensionata già da poco meno di un decennio, priva di rendite, la più brillante speculatrice della terza età in Italia. Ma siccome l’inverosimiglianza non spiega i movimenti di capitali, i pm Filippini, Furno e Scalas, che seguono il caso, hanno scelto di indagare Fontana per autoriciclaggio e falso per omissione in voluntary.
Il probabile prevale sull’inverosimile, soprattutto in mancanza di spiegazioni credibili. Il passo successivo è una rogatoria in Svizzera, che ha come obiettivo una indagine su quel conto bancario rimasto sconosciuto sino al maggio 2020. Ovvero fino al giorno in cui, non un temibile avversario politico, e nemmeno una soffiata anonima, ma lo stesso Fontana, rivelò (maldestramente) al mondo l’esistenza del tesoretto, dovendo giustificare la provenienza di un bonifico “risarcitorio” per la mancata fornitura alla società di famiglia, la Dama (intestata al cognato Andrea Dini e alla moglie Roberta).
Fontana aveva già detto (e non era vero) di non essere a conoscenza di quella fornitura di camici alla Regione da lui amministrata. Aveva detto (e non era vero) che si trattava di una fornitura benefica, e malgrado questo attingeva dal conto svizzero per bonificare 250.000 euro che dovevano coprire i costi di quella partita inviata dalla Dama alla Regione Lombardia.
Per poter provare a sostenere questa versione, a sua volta, la Dama aveva trasformato quella fattura, da “fornitura” onerosa a “donazione” gratuita. E anche questo adesso sappiamo che non era vero (era una fattura, tant’è vero chi è Fontana risarciva il mancato guadagno).
Ma quello era l’unico modo per provare a togliere le castagne dal fuoco al governatore, che in caso di pagamento – come sappiamo – sarebbe finito sul banco degli imputati sia per il suo conflitto di interesse che per le dichiarazioni in cui spiegava di non sapere nulla della fornitura (mentre era già in azione per proteggersi come sappiamo). La classica toppa peggiore del buco.
Per trarsi fuori dalla trappola del conflitto di interessi – come sappiamo con certezza oggi – Fontana si è infilato da solo nell’inferno dei suoi conti correnti di famiglia, degli scudi fiscali, dei milioni di euro di cui ora deve giustificare la provenienza.
Quindi adesso una doppia tenaglia stringe il governatore: da un lato la vicenda delle ipotesi di turbativa d’asta e di frode in pubbliche forniture. Dall’altra le rogatorie. Contraddizioni messe nero su bianco – ieri – da un comunicato del procuratore Francesco Greco, da cui si evince – e meno male! – che “la difesa del Fontana si è detta disponibile a fornire ogni chiarimento”. Quali? Di certo non quelli offerti in quella nota intervista a La Repubblica quando era scoppiato il caso.
“Era una cosa purtroppo di moda a quei tempi”. E ovviamente spiegando che non c’era stata “nessuna evasione fiscale”. Per via della famosa “madre fifona”.
Nessuno lo scrive, perché basta accennare a uno qualsiasi di questi motivi per incorrere nell’accusa di nutrire sentimenti anti-lombardi, ma la vicenda Fontana non è un fulmine a ciel sereno. È l’ultima di una lunga catena di sciagure che poggiano sulle spalle di una intera classe dirigente, di cui il governatore è il degno rappresentante, il campione, l‘eroe.
Le follie di Alzano Lombardo, le gaffes seriali di Gallera, la spiegazione tragicomica sui tassi di contagio, le guerre contro Roma sulle forniture (alla disperata ricerca di un capro espiratorio), le scelte (rivelatesi sbagliate) sulle terapie, l’assessore in gita in zona rossa malgrado un divieto che dovrebbe essere tenuto a far rispettare (svelato da un selfie!), le cattedrali sanitarie nel deserto, le disfunzioni nella campagna vaccinale, gli anziani convocati in piazza (senza vaccini), le dimissioni dell’assessore, e poi – per variare – i vaccini senza vaccinandi, non convocati, e poi gli sms (ai novantenni!), il numero clamorosamente basso di anziani vaccinati (il 17% contro il 31% delle regioni del centro e del sud), le dimissioni espiatorie dei vertici di Aria, e infine la distruzione, in sostanza, di quel mito meraviglioso che fu la “locomotiva lombarda”.
È un atto d’amore verso la Lombardia, dunque, e non il contrario, augurarci e sperare che la catastrofe di Fontana, si chiuda con le dimissioni di una intera giunta, il voto immediato, ed un ricambio radicale di classe dirigente, che metta fine a questo dramma: la lenta e struggente agonia di un mito. La vergogna di una regione che (con qualsiasi altro amministratore) può tornare a rendere orgogliosa l’Italia.
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