La Fase due, per come è stata annunciata dal premier Giuseppe Conte, sembra essere più una Fase 1 e mezzo. E anche quelle regioni in cui la famosa R dei contagi, che abbiamo imparato a conoscere sentendo parlare per più di 60 giorni fior fior di virologi, è vicina allo zero devono aspettare la Lombardia fino al 18 maggio. O forse chissà fino a quando. In questa situazione difficilissima, l’Italia si sta quindi dimostrando unita per il grande obiettivo di combattere il nemico invisibile. Così, il Sud aspetta il Nord, con la pazienza di chi sa che la curva del Coronavirus potrebbe tornare a crescere. Una pazienza che sta per terminare (e lo si vede dai sospiri che accompagnano le file dei supermercati, dai portafogli vuoti e dalle insofferenze delle persone che si trasformano troppo spesso in aggressività), ma che diligentemente un paese intero porta avanti tutto insieme. Ma se le cose fossero andate al contrario, ci troveremmo nella stessa situazione di oggi? Siamo sicuri che a parti invertite il Paese avrebbe mostrato la stessa solidarietà vissuta in queste settimane?
Il punto non è l’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera che sostiene che il Sud si sia salvato solo grazie al Nord. O Vittorio Feltri che dà degli inferiori ai meridionali. Davvero, il punto non è nemmeno la narrativa vittimistica della Regione Lombardia, secondo cui le domande che cittadini e giornalisti si stanno facendo su come sia stata affrontata la gestione dell’emergenza Coronavirus, che ha portato a oltre 26mila morti in tutta Italia, sarebbero solo un attacco politico (come ha spiegato in un editoriale anche il direttore di TPI Giulio Gambino). La realtà è che l’Italia è in lockdown nazionale da quasi due mesi e le aziende di tutto il Paese sono chiuse su tutto il territorio dal 23 di marzo, ma nessuno ha la certezza che sarebbe stato davvero lo stesso se il focolaio non fosse stato nel Nord Italia, ma al Sud.
Okay, fermiamoci un attimo. E immaginiamo un’altra Italia. 21 febbraio: il primo caso di Coronavirus viene individuato a Rende, provincia di Cosenza in Calabria, invece che a Codogno. La piccola cittadina di 30mila abitanti diventa la prima zona rossa d’Italia, sbarrata in entrata e in uscita. I contagi della cittadina calabrese galoppano nell’ospedale già allo stremo per i tagli alla sanità pubblica. Quindi è l’ospedale di Rende, al posto di quello di Alzano Lombardo, a chiudere per poche ore il 23 febbraio, per poi riaprire inspiegabilmente. Così non è la Val Seriana (le cui vicende di mala sanità e mala politica abbiamo raccontato con un’inchiesta in più parti a firma di Francesca Nava), ma il cosentano a diventare il peggior focolaio d’Europa e un mese dopo la Calabria conta 12 mila morti, tristi numeri che appartengono oggi alla Lombardia. Cosa sarebbe successo? Probabilmente il governo avrebbe pensato a zone arancioni, o a un lockdown a due velocità.
Ipotizzando un Nord Italia con i contagi vicini allo zero e una Calabria, una Basilicata o una Campania con i decessi a tre cifre, il primo pensiero è che lì le aziende non avrebbero mai chiuso per un periodo così lungo. In realtà, non lo hanno fatto neanche con il disastro sanitario in corso: più di 100mila imprese infatti hanno continuato la loro produzione o l’hanno ripresa ben prima del 4 maggio e la maggior parte si trova proprio nelle Regioni più colpite dal Covid-19. Un caso su tutti, l’abbiamo scritto sulle pagine di questo giornale, è quello della Dalmine, rappresentativo di come un’azienda come quella della Bergamasca – considerata strategica ai fini della produzione di bombole d’ossigeno – abbia tenuto aperto diversi reparti per la produzione di beni non essenziali. Perché la legge glielo ha consentito. Con un bilancio, però, molto amaro: due operai deceduti e altri finiti in terapia intensiva, e giovani precari costretti a lavorare da volontari nella filiera più rischiosa.
Certo, se la pandemia fosse arrivata in modo così virulento al Sud, sarebbe stato un grande problema per la sanità pubblica, già in ginocchio ben prima che il Covid iniziasse a serpeggiare in Cina. Nel caso di un focolaio con 800-1000 morti al giorno (cifre del Nord Italia nelle prime settimane di marzo) gli ospedali delle regioni sotto il Lazio sarebbero andati ko. Ma nella realtà, come ha reagito il Sud alla peggiore pandemia del secolo? Qualche esempio sono sicura possa venire in mente anche a voi. L’ospedale sulla collina del Vomero, il Cotugno, che è stato il centro dove è stato curato il Colera per cui Napoli è sempre stata sempre bistrattata, è oggi un centro d’eccellenza contro il Coronavirus. Dove il contagio tra il personale sanitario è stato finora scongiurato grazie al rispetto di rigidi protocolli di comportamento, frutto di un’esperienza antica. E ancora, è a Napoli che è stato sperimentato per la prima volta il Tocilizumab, il farmaco antiartrite che può essere utile a fermare il Covid, grazie al dottor Paolo Ascierto (che noi di TPI abbiamo intervistato) e alla sua équipe. Oppure, come non ricordare la comunicazione dei sindaci del Mezzogiorno per far restare le persone a casa, tra lanciafiamme e furgoni con i megafoni montati sopra, con la voce squillante proprio dei primi cittadini? Una comunicazione a volte troppo dura, ma sempre molto efficiente.
Il Meridione ha reagito con grande dignità, quindi. Ma le aziende del Sud sono chiuse anche dove non ci sono più contagi. I piccoli imprenditori non sanno come arrivare a fine mese anche dove non ci sono più morti per Covid da giorni. Ecco, quell’ipotetico focolaio a Rende invece che a Bergamo che immaginavamo prima fa pensare a un’Italia dove vengono applicati due pesi e due misure. Parliamoci chiaro: la Lombardia, il Veneto o il Piemonte non avrebbero mai aspettato il Sud se avessero avuto zero contagi. E questa differenza dovrebbe farci riflettere su una frattura tutta italiana che esiste ancora, e che fa più male che mai.
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