“Lei sta parlando con un viceministro condizionato….”. Quando lo avevo intervistato la prima volta, nella sua stanza di sottosegretario del governo gialloverde a viale Trastevere, Lorenzo Fioramonti mi aveva accolto così. Era già determinato, prima ancora di diventare ministro, a porre un ultimatum: “Ho preso questa decisione: resterò al governo solo se nella prossima manovra ci sarà un miliardo in più per l’università e per la ricerca e due per la scuola”. Gli avevo chiesto se fosse serio. E mi aveva risposto: “Più che serio. Determinato”.
Di fronte all’inevitabile stupore Fioramonti spiegava: “I soldi stanziati nelle ultime due manovre non bastano. Negli ultimi vent’anni, chi ci ha preceduto ha tagliato in ogni forma e ogni modo. Solo la Grecia ha fatto peggio. C’è bisogno di un intervento choc per recuperare il terreno perso”.
Le dimissioni di oggi, dunque, vengono da lontano. Da quando nel dicembre 2018, dopo l’accordo con l’Europa, Tria aveva bloccato 100 milioni, fino a luglio, per una sorta di auto-salvaguardia e da quando il sottosegretario e il ministro, solo dopo una trattativa serrata erano riusciti a sbloccarne 70. Di fronte alle risposte che gli venivano date in quei giorni da funzionari del Ministero dell’Economia – non c’e possibilità di stanziare altri fondi – Fioramonti aveva elaborato la sua famosa proposta: “Se non c’è altro modo – spiegava – copriamo il fondo per la scuola con nuove entrate ottenute con disincentivi economici a cose che fanno male alla salute”.
Cioè con nuove tasse, ma solo su alcuni tipi di prodotto. Il suo piano prevedeva “Bevande ad alte percentuali zuccherine, oppure le merendine ad alta percentuale zuccherine. Con un piccolo prelievo sui biglietti aerei”. E poi, ovviamente, motivava questi provvedimenti dicendo cose molto controcorrente: “Vorrei incentivare mercato e famiglie a cambiare la qualità dei loro consumi”.
Di fronte alla (prevedibile) levata di scudi dei produttori spiegava: “L’ordine di grandezza della sugar tax che ho immaginato andrebbe dai 3 ai 5 centesimi su una bottiglia da un litro, per esempio di Coca Cola. Se ottenessimo meno zucchero in questi generi di consumo, meno bambini obesi e più fondi sarebbe un risultato straordinario”. Aggiungeva: “Non voglio punire. Ma dobbiamo mandare un messaggio”.
Fioramonti è nato a Roma. Professore universitario, si è formato tra Africa, Sud America e Nord Europa. Prima era diventato viceministro con delega per l’Università, poi ministro del Miur. Durante le elezioni del 2018 la sua storia-simbolo aveva fatto di lui il volto più noto del famoso “governo ombra” del M5s, con un celebre intervento a Porta a Porta.
Serio, quadrato, ma anche molto critico ai tempi del governo con la Lega: “Dobbiamo finire di fare ridicole guerre tra gialli e verdi: pensare non all’immagine di un partito, o di un governo, ma di tutto il Paese”. E altrettanto caustico nel nuovo governo: “Dobbiamo pensare solo al bene della scuola italiana. Io sono contento di questa nuova maggioranza ma se fa le cose”.
Fioramonti è cresciuto a Torbellamonaca, estrema periferia di Roma, fuori dal raccordo anulare, e si raccontava così: “Essere ‘di Torbella’ vuol dire avere tutti contro per uno stigma sociale quasi automatico. Se sopravvivi diventi forte”. Ricordava cosa era stata per lui la scuola: “Negli anni ottanta, andavo in classe facendo slalom sulle siringhe gettate dai tossicodipendenti a via Nico Spertini”. Aggiungendo: “Ora le siringhe non ci sono più. Ma solo perché sono cambiate le modalità di consumo”.
Il padre di Fioramonti era medico di Pronto soccorso. La madre insegnante. Lui frequenta il liceo scientifico all’Amaldi (sempre a Torbellamonaca). Alla maturità prende 60/60 con la “menzione speciale”. Si iscrive a Storia a Tor Vergata, si laurea con 110 e lode (tesi sui diritti di proprietà nel pensiero economico moderno).
Poi, inizia a girare il mondo: “Prima vado in Belgio, a Gand, con il servizio volontario europeo. Vinco una borsa di studio per lavorare in una associazione ambientalista”. Poi si sposta in in Inghilterra. In una summer school economica ad Essex. Quindi prende un master a Siena e poi vince un Dottorato: “Il terzo anno vado a fare una applicazione sul campo, sul tema che studiavo: come cambiano i paesi post-autoritari quando tornano alla democrazia”.
Quindi il grande salto, l’esperienza che lo segna. “Parto per Pretoria, in Sudafrica. Dopo un po’ di tempo inizio a lavorare per la cooperazione allo sviluppo”. Mette su famiglia, conosce e si innamora di Janine: una tedesca, ma nata e cresciuta in Venezuela. Per tre anni abita anche a Caracas. Il Sudafrica, per lui, “è il paradiso terrestre. L’unico posto dove i vantaggi tecnologico del ‘primo mondo’ convivono con quelli ecologici e ambientali del ‘terzo mondo’”.
È il confronto tra questo mondo e l’Italia che lo angoscia: “Quello è un paese ipertecnologico dove il wi-fi è ovunque e vengono stanziati fondi per la ricerca che nemmeno immaginiamo”. Gli piace raccontare i dettagli: “Lo sai che a Pretoria i posteggiatori li paghi solo con la App?”.
Nel 2008 il futuro ministro prova a tornare con un assegno di ricerca all’Università di Firenze. Il grande sogno coltivato con la moglie è aprire un centro di ricerca: “Investiamo tutti i nostri risparmi, 120mila euro, in un terreno dove edificarlo”. Ma finisce con un doppio disastro: “All’università quando c’è il concorso mi dicono: ‘Non ti presentare’”. E glielo spiegano con una meravigliosa delicatezza baronale: “In modo addirittura carino – ricorda l’ex ministro – mi fanno capire che ‘non è leale’ presentarsi con un curriculum come il mio: ‘Metti in difficoltà un’altra persona che lavora da tanti anni’. Gli spiegano: ‘Attenda. Verrà anche il suo momento’”.
Ma la vera catastrofe deve ancora arrivare. Per il centro i Fioramonti avevano comprato un terreno a Ripoli, ma durante gli scavi per il tunnel della variante di valico si produce una frana che colpisce il loro Comune. Perdono tutto e – insieme agli altri abitanti – finiscono in causa con Autostrade. Una parte dei terreni, infatti, finiscono in una “zona rossa”. Autostrade avrebbe dovuto risarcirli nel 2011. Ma da nove anni non lo fa. Nei giorni della polemica sul ritiro delle concessioni Fioramonti scherzava amaro: “Basterebbe che pagassero i danni che producono”.
I due eventi lo spingono ad andarsene di nuovo, stavolta in Germania: “Avevo preso due micidiali botte in faccia. Mi propongono un supercontratto da junior professor a Heiderberg”. Aveva 35 anni. Passa da 1.500 euro al mese a 2.500 euro netti più 5.000 annui per viaggi e asilo pagato per insegnare Economia politica. Resta ad Heidelberg tre anni, Janine trova un lavoro a Berlino, presso Trasparency International, l’ente che stila le classifiche di qualità su tutto il mondo.
Poi nel 2012 arriva una offerta irrinunciabile da Pretoria e torna in Sudafrica: diventa professore associato. Gli viene affidato il progetto di un centro universitario completamente ecosostenibile. Gli affidano 50 milioni di dollari per realizzarlo. Viene costruito in tre anni, assume 37 persone. È a questo punto che scrive un libro di successo: Gross domestic problem, un saggio sull’imperfezione del Pil: “È stato inventato nel 1931, in America. E misura solo i consumi di mercato”.
Un giorno lo chiama Giorgio Sorial (oggi sottosegretario), che all’epoca viveva in Irlanda e faceva l’ingegnere. Aveva letto il libro, che aveva avuto successo nel mondo anglosassone, gli proponeva di presentarlo alla Camera, e così conosce Di Maio. Racconta ancora a Fioramonti: “A dicembre del 2017 ero a Roma per le feste di Natale. Luigi mi telefona e mi invita a cena a Milano. Accetto. E lui quella sera mi dice: ‘Vuoi stare nella squadra di governo e aiutarmi a costruirla?’”.
È Fioramonti che arruola Pasquale Tridico, futuro presidente dell’Inps, e Filomena Maggino, che avrebbe dovuto essere il ministro della Qualità della vita (e oggi lavora con Conte, nella Cabina di regia di “Benessere Italia”). Diventa sottosegretario dopo aver ricevuto un messaggino su WhatsApp. E inizia a scoprire i paradossi del ministero: “La macchina amministrativa di muove in autonomia. Talvolta apprendo di decisioni che riguardano le mie deleghe solo dal tam tam del ministero”.
Gli sembra assurdo che l’Italia sia l’unico paese che manda in Europa, dove si decide, i direttori generali con i discorsi già scritti. Immagina una progettualità nel lungo periodo, diventa il primo ministro italiano che parla correntemente quattro lingue e presenzia agli incontri informali. Ma non è solo rose e fiori. Lo attaccano addirittura perché il figlio (all’epoca di cinque anni) “non ha optato per l’italiano” in una scuola che frequenta per un breve periodo a Roma (adesso abita a Berlino).
Lo criticano per la circolare in cui “autorizza” gli studenti e i professori a partecipare insieme alle manifestazioni sul clima. Lo accusano di essere massimalista, intransigente, troppo rigido. Reintroduce la storia nei temi, firma un nuovo contratto della scuola (un miliardo), i colleghi in camera caritatis gli dicono: “Perché non ti godi il tuo lavoro e lasci perdere questa cosa delle dimissioni?”.
Ma lui è davvero molto rigido, molto anglosassone, segnato da questa biografia umana e professionale. Quando prima delle feste gli chiedo per l’ennesima volta se davvero si dimetterà se non otterrà i fondi mi risponde così: “Pensavo che tutta la mia storia le spiegasse perché. Non sono tornato in Italia per una poltrona, ma per provare a cambiare”. E se non ci riesce? Alzata di spalle, sorriso amaro: “A Pretoria starò benissimo”.