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    La felicità è una cosa seria (di G. Gambino)

    Credit: Vecteezy
    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 18 Ott. 2024 alle 16:08

    Conobbi per la prima volta di persona Domenico De Masi l’11 novembre 2021. In  risposta al mio messaggio in cui gli chiedevo dove e a che ora avrebbe preferito incontrarmi, rispose: «Domani. Scelga lei il luogo e l’ora, come avveniva con i duelli dell’Ottocento. Io abito in corso Vittorio».

    Da quel momento in poi, a partire cioè da sabato 4 dicembre 2021, iniziai a frequentarlo con sorprendente assiduità: per circa due anni, quasi sempre il sabato, ci incontravamo a casa sua. Inizialmente senza alcuno scopo se non quello di conoscerci; poi con l’intento di trasformare questi piacevoli “duelli” culturali in un piccolo volume scritto insieme – «il nostro libro», lo chiamava lui – per dare un senso all’attualità che imponeva una riflessione più profonda di quanto non riuscissimo a fare con la nostra rivista, alla quale pure contribuiva partecipando a quasi tutte le riunioni di redazione e scrivendo articoli.

    Da gran signore quale era, Mimmo mi stava regalando delle preziosissime sessioni private di sociologia che sfociavano, spesso, in vere e proprie sedute psico-analitiche sul senso della vita.

    Con una pazienza infinita, mi aveva aperto la porta di casa sua per introdurmi a una cultura che oggi è molto difficile, se non impossibile, ritrovare in un essere umano. Era il suo mondo.

    Passato, presente, futuro. Perché con un forte spirito di positività sempre al futuro rivolgeva il suo sguardo. Mi faceva accomodare nel suo salotto davanti a un caffè servito con una fetta di ciambellone fatto dalla sua adorata Susi. Alla sua sinistra, affissa al muro, una gigantesca televisione, a destra un grande trumeau con sopra e di fianco fogli, libri, riviste. Si accendeva il sigaro e iniziava a parlare: «Allora, dove eravamo rimasti?»

    Ho avuto la fortuna e l’onore di incontrare De Masi da vicino per soli due anni. Ma intensissimi. Un pomeriggio mi prese per mano, come ogni tanto faceva lui, e mi trascinò, letteralmente, fuori nel terrazzo davanti al salotto: quei pomeriggi per me – orfano come molti della mia generazione di leader, mentori, pensatori – furono il mio liceo, la mia università e il mio master messi insieme.

    Questo signore elegante e signorile, affabile e affascinante, basso di statura ma altissimo di mente, è stata una delle persone più brillanti che io abbia conosciuto finora. Colto, forse troppo per scendere a patti con la superficialità dei nostri giorni, ironico e auto-ironico, sembrava il Nonno di Miracolo nella 34ª strada e invece era solito andare a colazione con Lula o telefonare all’una di notte a premier, ex premier e ministri per donare loro cultura e istruzione.

    Il compito più difficile, alla fine e all’inizio di ciascuna delle nostre sessioni di incontri, fu mettere ordine a questo flusso di coscienza infinito.

    Un confronto tra due generazioni con mezzo secolo di differenza. Lui, che ha vissuto a pieno almeno tre società: quella rurale, quella industriale e quella post-industriale.

    Io, figlio di quella post-industriale e della sua crisi più profonda, nel bel mezzo della transizione verso una nuova epoca: quella del pensiero creativo, che De Masi ha coniato ed elaborato.

    Iniziammo col parlare della sua vita personale, dedicando ai primi diciotto anni della sua esistenza un intero ciclo dei nostri incontri, e si divertì moltissimo a ripercorrere quelle emozioni come forse non faceva da tempo. Lo studio, la guerra, il rapporto con i suoi cari, le sue amicizie e i suoi “vizi”. Come quella “ossessione” di scrutare e individuare un metodo in ciascuna attività sociale in cui si imbattesse.

    In questo senso una delle cose che più mi colpirono fu la sua capacità, forse unica, di sapere organizzare il lavoro. Proprio e altrui. Disponeva di un metodo efficace, per molti semplicemente impensabile, studiato e limato negli anni, a partire dal Fordismo. 

    Il metodo è cruciale in qualsiasi ambito, mi aveva spiegato: ti permette di risparmiare tempo, di avere ordine mentale, imparare in fretta, aumentare la produttività. E di estendere quel metodo in larga scala a una serie infinita di attività, compreso il pensiero creativo. L’aveva acquisito negli studi e nella sua esperienza (cruciale) con l’amico Adriano Olivetti, prima in fabbrica, poi come consulente di vari progetti d’impresa.

    Lui guardava e osservava tutto. Attentamente. De-strutturava il metodo e lo analizzava. Talvolta facendolo a pezzi, altre volte elogiandolo e migliorandolo. Il che ovviamente era una sorta di “mental crisis breakdown” per ciascuno dei suoi interlocutori.

    Ciò gli ha permesso di vedere con largo anticipo una serie di fenomeni che, come diceva lui, erano ormai il segno evidente della fine della società post-industriale: lo smart working, lavorare meno e meglio (a parità di salario), l’ozio creativo. Ancora: il reddito di cittadinanza, o di esistenza, il salario minimo.

    Già dal secondo nostro incontro fu necessario stilare una tabella di marcia con i temi da affrontare. Alla fine, fra lezioni e incontri informali avvenuti nel biennio tra dicembre 2021 e maggio 2023, ne uscirono circa ventiquattro ore totali di audio-registrazioni.

    Quando, alla tragica notizia della sua prematura scomparsa, iniziai a rileggere gli appunti presi e a riascoltare per una seconda volta quel materiale registrato, fu naturale proporre l’idea di pubblicare un libro basato proprio su quelle nostre conversazioni, mantenendo fede all’impegno e al percorso comune che avevamo intrapreso.

    Non è stato affatto facile riuscire a farlo da solo, senza la rilettura e il giudizio di Mimmo. Per questo abbiamo optato per la forma dialogica, preservando la natura di quelle conversazioni e dando la possibilità al lettore di fruire del valore di quegli incontri.

    Il risultato, come potrete leggere nelle pagine che seguono, è un dialogo informale ma serrato, rievocativo e introspettivo, in cui Mimmo ripercorre, con aneddoti inediti ed esperienze personali che hanno plasmato il suo pensiero di intellettuale, i capisaldi del suo lavoro di sociologo.

    Il senso era, ed è tuttora, quello di affrontare insieme alcuni fra gli argomenti più divisivi del nostro tempo, offrendo una spiegazione, e in alcuni casi una possibilità di soluzione, ai problemi esistenziali dell’uomo nell’età post-industriale. I quali, nonostante le potenzialità introdotte dalla rivoluzione dell’era digitale, rimangono gli stessi dall’inizio dell’Ottocento. Fino ad arrivare, oggi più che mai, al diritto di essere felici. Perché «si vive una volta sola» e «la felicità è una cosa seria».

    Il merito di questo volume è, ovviamente, solo di Domenico De Masi, mentre io mi sono limitato a porre domande e mettere in fila i suoi pensieri.

    Tra le più grandi capacità di Mimmo c’è quella di essere sempre stato un uomo libero, proprio perché non dipendeva da nessuno se non dalla sua mente.

    Apprezzato ma scomodo, trasversalmente elogiato ma ugualmente guardato con sospetto: nessuno in Italia, da destra a sinistra, ha voluto sino in fondo sfruttare le idee di chi, come De Masi, ha saputo leggere il futuro prevedendo con largo anticipo fenomeni che, vent’anni fa, sarebbero stati semplicemente inimmaginabili.

    Un aneddoto interessante emerge dal passato della sua famiglia. Al nonno (anche lui Domenico) non toccò sorte poi troppo diversa: fu – mi raccontò De Masi – l’uomo che per primo portò la luce elettrica in Campania, a Sant’Agata dei Goti, prima ancora che questa arrivasse a Napoli. Per farlo, visto che il Comune non finanziò il suo ambizioso progetto, dovette indebitarsi, deviare un torrente, costruire una fitta rete di fili sotterranea per portare la luce e illuminare, simbolicamente nel giorno del battesimo di suo figlio (il padre di De Masi), tutta la città. Era il 1902. Il Comune non gli restituì mai quei soldi, ma l’amministrazione locale, cento anni più tardi, nel 2002, rese onore ai De Masi regalando la cittadinanza onoraria a Mimmo.

    Ciò che Domenico De Masi ha cercato di fare con il suo lavoro è – agli occhi dei governanti e dei decisori odierni – al pari di quanto suo nonno, un secolo fa, dovette fare: convincere un’intera popolazione, abituata da sempre al buio, che era possibile vivere con la luce. Un’impresa incredibile. Impossibile da prevedere allora, impensabile non averla oggi.

    Ci limitiamo ad augurarci che non si debba aspettare ancora un altro secolo affinché, chi decide, apra gli occhi e capisca l’importanza del suo pensiero.

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