Superato il problema del debt ceiling statunitense grazie all’accordo tra l’amministrazione Biden e la maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti, una nuova vicenda potrebbe avere conseguenze nefaste sull’economia mondiale. Ma andiamo con ordine e facciamo un passo indietro.
L’ultimo decennio del XX secolo è stato caratterizzato da due crisi economiche originatesi in Asia: quella del Giappone del 1991 (causata dalla stretta monetaria attuata dalle autorità nipponiche, preoccupate per l’eccessiva concessione di credito da parte delle banche private e che diede il via al cosiddetto decennio perduto caratterizzato da deflazione, recessione e stagnazione) e la caduta delle cosiddette “tigri” asiatiche (ossia Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong) nel 1997 (originatasi dalla svalutazione del baht thailandese e poi diffusasi in Asia, con gli investitori che ritirarono i propri capitali per spostarli verso Stati meno a rischio).
Anche il XXI secolo, del resto, ha già visto un paio di crisi svilupparsi nel continente asiatico: i fallimenti di grandi imprese del settore immobiliare cinese nel 2015 ed ovviamente la crisi pandemica da Covid-19 iniziata nel dicembre del 2019, sempre in Cina.
Adesso, però, come si è detto, sembra che un’altra – e ben più grave – minaccia si profili per l’economia del continente asiatico (e non solo). In effetti, com’è noto, nel tentativo di estendere il proprio soft power, la Cina ha prestato circa 1.000 miliardi di euro ad oltre 150 Stati (per la gran parte Paesi in via di sviluppo), ma la situazione ancor più grave è quella del debito interno cinese che ammonterebbe (il condizionale è d’obbligo, visto che non vi sono dati ufficiali) a 46.000 miliardi di dollari, pari al 287% del Pil (debito aggregato di famiglie, aziende e settore pubblico cinese).
Come si vede, i prestiti concessi dalla Cina a Stati terzi sono ben poca cosa se confrontati con l’enorme debito interno, tuttavia essi rappresentano un punto dolente del sistema economico cinese, dato che sono sempre più numerose le voci che si levano contro queste “uscite” finalizzate a manovre di incremento dell’influenza cinese nella politica internazionale, con i critici di questo modus operandi che vorrebbero, invece, un aumento dei prestiti a favore del mercato interno (famiglie, imprese, comunità locali, ecc.).
Del resto, l’origine dell’enorme debito interno va cercata nel sistema di governo territoriale cinese, con molti enti locali che hanno richiesto finanziamenti ingenti per poter far fronte alle proprie spese di funzionamento, agli interessi su altri prestiti, per finanziare opere infrastrutturali, ecc.; il rallentamento della crescita economica della Cina ha provocato minori entrate anche per gli enti locali, con la conseguente difficoltà nel rimborsare i prestiti ottenuti dal sistema bancario.
A tutto ciò si aggiungono le difficoltà dei debitori internazionali della Cina (quali Sri Lanka e Pakistan, ad esempio), che non riescono neppure a pagare gli interessi sui finanziamenti concessi da Pechino.
Quali potrebbero essere le conseguenze del default di uno (o più) debitori della Cina sul sistema economico internazionale?
Al momento è difficile ipotizzare una situazione del genere, tuttavia è evidente che davvero pochissimi economisti (e ancora meno politici) sono a conoscenza di questa vera e propria “mina” sepolta tra le altre crisi che hanno, al momento, maggiore eco mediatica (e men che meno si stanno ponendo l’interrogativo al fine di trovare una soluzione).
Non va infatti dimenticato che la Cina è il secondo detentore estero del debito americano dopo il Giappone, con oltre 860 miliardi di dollari di titoli sovrani statunitensi: una crisi di Pechino, eventualmente causata dall’insolvenza dei propri debitori internazionali – con la vendita di bond americani per fare cassa – avrebbe pertanto conseguenze anche sull’economia di Washington e, di conseguenza, su tutto il sistema finanziario globale.
E’ quindi necessario evitare una nuova crisi dei debiti sovrani, anche eventualmente con la collaborazione tra il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Asian Infrastructure Investment Bank, fondata da Pechino nel 2014 quale istituzione finanziaria internazionale contrapposta al FMI ed alla Banca Mondiale. Ciò in quanto, per citare un proverbio del Sichuan reso famoso da Deng Xiaoping, “non importa se il gatto è bianco o è nero, l’importante è che acchiappi i topi”.
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