Eniola Aluko: la vera vittima non è lei, che può scegliere di partire, ma noi costretti a vivere in questo Paese
È stanca, Eniola Aluko, numero 9 della Juventus femminile, nigeriana di nascita e dal passaporto britannico. È stanca di lottare per piccole cose quotidiane che noi diamo per scontato e che per lei sono diventate vere e proprie odissee. Come entrare in un negozio “senza che qualcuno si aspetti che, da un momento all’altro, possa rubare qualcosa”. Come superare i controlli a un aeroporto “senza essere guardata come fossi Pablo Escobar”. Per questo ha deciso che può bastare così: tornerà in Inghilterra, Aluko.
Quella di domenica con la Fiorentina sarà la sua ultima partita in maglia bianconera. Dopodiché saluterà i tifosi per cui è diventata una beniamina e farà le valigie verso il proprio Paese.
Era l’estate 2018 quando Aluko è sbarcata in Italia, ultima tappa di una carriera stellare che l’ha resa una delle attaccanti europee più forti e prolifiche in circolazione. Non aveva più nulla da dimostrare, Aluko. Ma intanto si è tolta il lusso di vincere la classifica marcatrici e di trascinare coi suoi gol la Juventus alla conquista del Triplete: Scudetto, Coppa Italia e Supercoppa. Tutto quello che c’era da vincere, Eniola l’ha vinto.
Mentre in campo segnava gol a raffica, fuori la vita di Aluko è diventata, col passare dei mesi, sempre più difficile. “Non ho mai subìto attacchi razzisti – ha chiarito – Ma ho scoperto un Paese indietro di decenni in tema di integrazione, in cui il razzismo è considerato parte della cultura del tifo”.
Quella di Eniola Aluko non è la semplice denuncia di un episodio di intolleranza di cui ormai le cronache giornalistiche straripano. È qualcosa di più, di diverso, per certi versi più inquietante: è la descrizione esatta, minuziosa, di un clima irrespirabile che attraversa la società a tutti i livelli e in tutti gli strati sociali. Che non sfocia necessariamente nel gesto eclatante, nell’aggressione fisica, ma si inocula silenziosamente nella testa delle persone attraverso pregiudizi sottili come lame.
Nessuno di noi può fino in fondo capire cosa significa essere etichettato con uno sguardo, essere osservato con sospetto per il colore della tua pelle, diventare tu stesso quel colore. Non esiste difesa o anticorpo per proteggersi da quegli sguardi. È come uno stigma che che ti porti dentro e di fronte a cui non ti è neppure concesso di reagire. Per mesi Eniola ha convissuto con quello spaventoso stigma, convincendosi che prima o poi sarebbe andato via da solo. E, invece, ha finito per essere lei ad andarsene.
La lettera con cui Aluko ha detto addio all’Italia attraverso le colonne del “Guardian” è una ferita che sarà difficile rimarginare, è una pietra d’inciampo lungo la strada verso l’abisso. È l’ultimo campanello d’allarme che suona in un Paese narcotizzato dal cinismo e dall’indifferenza.
Se una donna, una giocatrice di calcio, lascia l’Italia perché è “stanca di essere trattata come una diversa“, significa che il livello di guardia è stato superato da un pezzo, e questa volta non basterà la generica solidarietà alla povera vittima di razzismo. Non è questo che ci sta dicendo Aluko. Non è quello che ci sta chiedendo. Le sue parole sono pietre scagliate contro l’indifferenza che tutti noi in questi anni abbiamo avuto nei confronti del problema, fingendo di non vedere quello che accadeva sotto i nostri occhi, come se la cosa in fondo non ci riguardasse.
E, mentre gli italiani ancora rimasti umani fanno a gara per chiedere (giustamente) scusa ad Aluko, lei ci ricorda piuttosto come la vera vittima non sia lei, che può scegliere di salutare tutti e partire, ma noi che in questo Paese, con questo clima, dovremmo sforzarci, nonostante tutto, di vivere e di convivere. Ed è ora che cominciamo a fare qualcosa per renderlo finalmente un luogo civile e vivibile.
Leggi l'articolo originale su TPI.it