Dunque, “c’è vita a sinistra”. Così ci dice l’esito delle primarie del Pd. Vita a sinistra, ovvero nella galassia che vota e simpatizza, e che a valanga ha eletto segretaria Elly Schlein. Assai meno, molto meno, nel partito, nel suo (residuo) corpo militante che aveva invece incoronato Stefano Bonaccini, con una ventina di punti di distacco sulla diretta competitrice.
È vero che il senno del poi non vale granché, ma a ben pensarci, se ci avessimo riflettuto a mente fresca e non inquinati dal sottofondo mediatico, questo risultato avrebbe potuto essere ampiamente prevedibile. Per molti versi inevitabile, perché certifica l’esistenza pura e semplice di quell’elementare istinto di sopravvivenza che caratterizza qualunque organismo in natura proteggendolo dall’estinzione. E, senza una svolta netta e chiara, il Pd era, con tutta evidenza, destinato all’estinzione.
Il processo di separazione dal suo “popolo” – da quello che un po’ enfaticamente è stato chiamato il “popolo di sinistra” – era andato così avanti, e così in profondo, che in un quadro di continuità non lasciava intravvedere più alcun punto di rimbalzo. Richiedeva non solo e non tanto un cambio di passo, ma un reale mutamento di orizzonte.
Gli elettori, per lo meno quelli che non si sono ancora arresi alla disillusione degli ultimi anni, lo hanno capito. E hanno battuto un colpo. Gli iscritti, gli esigui drappelli di iscritti che hanno continuato a rinnovare la tessera, no.
La geografia del voto, d’altra parte, parla da sé. Elly Schlein vince con percentuali bulgare nelle grandi città, la parte di Paese in cui il Partito democratico aveva meglio resistito allo tsunami della peggior destra dell’ultimo settantennio. A Milano, dove triplica i voti rispetto a Bonaccini (72% a 28!). A Roma e a Torino, dove quasi li raddoppia (65% a 35 e 64 a 36) e dove il centrosinistra ha tenuto il Comune.
Nella stessa Bologna, cuore del regno bonacciniano, dove il governatore sta sotto di quasi venti punti rispetto alla sua vice. A Genova, dove evidentemente, pur circondata dalla destra, resiste una sinistra non arresa e dove il rapporto è di 30 a 70, esattamente come nella Firenze che fu di Matteo Renzi e che ora chiede con voce potente di chiudere con quella brutta storia. Persino a Palermo, dove pur ha votato un esiguo drappello (4.645 elettori) la domanda di cambiamento è stata schiacciante con un plebiscitario 74 a 26!
Insomma, quella parte di elettorato che soffre profondamente la deriva disastrosa di questo Paese, e che ha ancora mantenuto la voglia di uscire di casa per votare e tentare di opporsi al corso delle cose, ha detto la sua forte e chiaro.
Probabilmente se l’esito di queste primarie fosse stato diverso, se avesse vinto l’inerzia del “partito delle tessere” sulla rivolta del “partito delle opinioni”, quel residuo di buona volontà civile si sarebbe ritirato silenziosamente nell’astensione alle prossime scadenze elettorali.
Già gli endorsement assurdi di Letta e Bonaccini alla persona di Giorgia Meloni e al suo governo infarcito di nostalgie postfasciste erano suonati come uno sfregio alla voglia di opposizione di chi ancora il 25 settembre aveva votato a sinistra.
Se dal voto del 26 febbraio fosse stata confermata la linea – ma nemmeno di linea si tratta, di mood piuttosto – di quella strana coppia, questo sarebbe stato percepito come una prova definitiva dell’immodificabilità di una situazione giudicata intollerabile.
Detto questo, bisogna aggiungere che dare un segnale di vita non significa garantirsi di potersela vivere, quella vita, in salute. Fuor di metafora, questo vuol dire che per Elly Schlein, e per il partito che è stata chiamata a guidare, i problemi incominciano ora. E non sono certo di facile soluzione.
Si può cambiare un corpo dalla testa (ricordate “Le teste scambiate” di Thomas Mann)? Che cosa è diventato quel “corpo” in questi quindici anni dalla sua nascita, e nella metamorfosi che ha subito da quando nell’ultimo decennio del Novecento tutto è cambiato? È in qualche modo “redimibile” rispetto alla vocazione dissolutiva che l’ha caratterizzato nell’avvicendamento di nove segretari, ognuno respinto con perdite?
Le antinomie che queste primarie d’eccezione consegnano a Elly Schlein, al Pd, al popolo delle primarie e in fondo a tutti noi, sono pesanti: Gazebo vs Sezioni, Opinione vs Tessere, Elettori vs Amministratori.
La nuova segretaria generale dovrà governare un partito che non è (ancora?) il suo: che è maggioritariamente occupato da quello che è stato il suo avversario e che, sembra di leggere tra le righe delle prime dichiarazioni, se ne considera ancora azionista di maggioranza. Una sorta di co-abitazione tipica del semi-presidenzialismo francese, delicatissima da gestire.
Tanto più che il “corpo” del partito si è modificato, e in parte ossificato, in questi anni di costante dimagrimento, dagli originari 831mila iscritti del 2009 ai poco più di 300mila del 2021 (ultimo dato disponibile): spariti i gruppi sociali strutturati, operai, insegnanti, ha visto crescere il peso degli amministratori (il mitico “partito dei sindaci”) e un coacervo di gruppi d’interesse (i «giri» di cui ha parlato Gustavo Zagrebelsky) dipendenti in notevole misura dal reticolo dei poteri locali e dal governo e sottogoverno.
Né è passata senza lasciar segni l’infausta stagione renziana, in cui ai vari livelli il partito ha visto crescere nelle proprie strutture il peso di quanti si riconoscevano nello spirito del Capo e da lui erano riconosciuti, nella rispettiva furia di liberarsi di ogni traccia di tradizione storica.
Ci si può interrogare su cosa faranno, tutti costoro, di fronte a una nuova linea politica che rompa col passato. Scissione? Opposizione interna più o meno sorda? Allineamento più o meno tattico? Così come ci si può chiedere, legittimamente, se un partito così geneticamente modificato possa ancora essere riconvertito a un’azione di opposizione quale la situazione richiede e la nuova segretaria promette («Saremo un problema per il governo Meloni»).
Come potrà (e vorrà) riconquistare la fiducia di quella massa di elettori che da tempo hanno smesso di votarlo, quelli “fuori dalla Ztl”, per intenderci, finiti dell’immensa palude dell’astensione o peggio al consenso a destra: quelli che non c’erano ai gazebo, ma che restano indispensabili per pesare davvero sulle sorti del Paese.
Per loro non basterà il tipico consenso d’opinione, occorreranno obiettivi, linguaggi, proposte chiare su lavoro, diritti sociali, reddito, salute, pace e guerra. Ed è su questo che si giocherà la partita, non solo nell’area della sinistra italiana, ma per le sorti dell’intero Paese.
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