La tentazione del post 25 Settembre è urlare a tutto il mondo progressista che “la guardia è stanca” e che alcuni palazzi e uffici vanno sgomberati. È quel che occorrerebbe dire a poche ore dall’apertura delle urne per afferrare il significato del voto che ha catapultato la destra vera di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio, relegando la sinistra a una presenza, almeno per i prossimi cinque anni, marginale o, peggio, ininfluente.
Eppure l’occasione era grande. Ma si è persa nei labirinti della propaganda e delle strategie pianificate per qualche voto in più. C’è stata la pandemia che ci ha costretto a stare in casa, che ha sospeso le nostre vite in preda alle paure scandite dal suono delle ambulanze e dai proclami di chi ne sapeva più della scienza, che ci ha imposto nuovi modelli di comportamento. A completare l’opera l’aggressione della Russia all’Ucraina che ci ha fatto piombare nell’asprezza e crudeltà della seconda guerra in Europa (non dimentichiamoci la Serbia) con annesso incubo delle minacce nucleari. Manca il ritiro degli ambasciatori.
All’orizzonte si staglia la recessione con il preavviso delle bollette dell’energia e, oggi, la realtà della Destra, quella vera, che si piazza a Palazzo Chigi. Per fare cosa? Si chiedono non senza espressioni di sorpresa coloro che osservano da sempre il mondo senza capirne, però, granché. Semplice, la Destra farà la Destra, con la stessa intensità e con lo stesso impegno che la sedicente sinistra ha messo nel correre al centro o nel guardare in alto. Le due cose si tengono. E lo farà con la determinazione di chi per anni ha vissuto con frustrazione gli ideali sbandierati in tutta Europa, da Vox a Orban, non certo esaltanti o condivisibili che a un certo momento, viste le tante porte lasciate colpevolmente aperte, sono entrati di gran carriera e nel breve volgere di un lustro nelle nostre vite. Volete che la Destra perda l’opportunità di stare al potere e di condurre il gioco per tutta la legislatura?
La difenderà con le unghie. Insomma, non c’è gioco a meno di clamorosi rivolgimenti.
L’occasione che si era presentata negli ultimi anni ai cosiddetti progressisti era irripetibile. Tentare di cambiare il Paese, eliminando le brutture che lo affliggono da decenni e conservando quel tanto di buono che i nostri nonni e padri ci hanno lasciato, oggi purtroppo denigrato o messo in soffitta. Dopo ogni grande guerra o avvenimento epocale, le persone sono sempre riuscite a tirare fuori le energie – oscurate da eventi più grandi e inaspettati – l’inventiva – che soltanto nuovi e impellenti bisogni riescono a sollecitare – e il coraggio – indispensabile per qualsiasi intrapresa. Si chiama – il tutto – cambiamento. In Italia, guardando indietro, va sotto il nome di miracolo economico e non solo economico.
Prima del 25 Settembre questo tutto non è comparso negli oscuri e insinceri programmi dei partiti e dei leader in competizione. Si è puntato sulla simpatia o sull’antipatia dei contendenti. E quello che c’era dietro, di inespresso? Di quali interessi ciascuno si è fatto portavoce o difensore? Vallo a capire. La sanità, una volta passata la grande emergenza pandemica, è tornata a essere la preda preferita dei capitali privati, che non smetteranno mai di ringraziare un mercato miliardario in cui tuffarsi. E mentre negli ospedali cominciano a scarseggiare medici e infermieri, la sanità privata rialza la testa e comincia a invadere quel mercato e a prenderne il meglio, le cosiddette eccellenze. Gli eroi della lotta al virus sono stati costretti a indietreggiare. Parlarne durante la campagna elettorale? Macché, anche questa è stata un’occasione persa.
E qualche accenno alle nostre università? Bisognava scovarlo tra le pieghe di qualche discorso in piazza, tra un urlo e una promessa, tra un’offesa e una cattiveria gratuita. Sempre per non dover affrontare il gigantesco problema dell’istruzione, della ricerca scientifica, dell’innovazione. E che dire dell’economia? E dell’eterno e opprimente Fisco che non accontenta mai nessuno, affidato alla lealtà di pochi?
Volavano perfino concetti di ferocia inaudita contro i poveri, gli sfortunati, i nullafacenti, dimenticando ad arte i furbi che per decenni hanno saccheggiato l’intero Paese, snervandolo. E poi, le facce. Inossidabili al passare degli anni e delle legislature, che tentano di abbellirsi in qualsiasi occasione con il portentoso lifting del potere. E tutti a lamentarsi di una legge elettorale creata per perpetuare il privilegio, e per attenuare eventuali rovesci o amplificare successi. Bastava cambiarla questa iniqua e truffaldina legge che ci accompagna alle urne; ma nessuno ci ha pensato e lo ha ritenuto conveniente. È l’ennesima presa in giro del voto italiano nell’alto esercizio della democrazia, oggi alibi perfetto degli sconfitti.
Eppure bastava poco, un minimo di buona volontà e dare fondo a qualche ricordo di buone letture o prestare ascolto ai veri eroi del nostro passato. Troppe parole hanno coperto il fragore che ogni tanto si sente arrivare dal basso della società, dalle città che la crisi morale e sociale rendono più brutte, quindi invivibili. Non viene neanche preso nella giusta considerazione il grido che parte dai penultimi, dagli ultimi, moderna riedizione degli echi siloniani quando ci parla dei Torlonia in Fontamara. Ricordate?… In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo… Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire che è finito”. Ma quanto scocciano le parole! Ecco da dove arriva il deficit di cultura e di cultura politica che si riflette su quella massa di chi non va a votare e a scegliere.
Sta qui, in queste parole che vorrebbero essere calde e rassicuranti, il vero motivo del distacco degli italiani dalla propria classe politica. Perché nessuno o pochissimi personaggi marginali hanno infiammato i cuori di noi paria della democrazia del terzo millennio. E senza passioni tutto scorre come l’acqua del fiume sulle pietre, non si ferma mai, ma leviga i nostri sogni, passa e va sopra i nostri bisogni di una vita migliore, senza però incidere. Una civiltà che affida il destino di molti ai furbi. Il 25 Settembre valeva la pena combattere, come scrisse Orwell nel suo Omaggio alla Catalogna accorrendo a Barcellona per entrare nelle milizie repubblicane e opporsi così a ogni forma di totalitarismo o dittatura. Anche a costo di arruolarsi in un esercito un po’ scalcagnato di anarchici.
Il 25 Settembre né i partiti né gli elettori hanno fatto il loro mestiere. I primi non fornendo una prospettiva, i secondi non pretendendola. Tutto è stato breve, senza però essere intenso, ripetizione di riti che vorrebbero essere moderni e al passo con i tempi, ma che scadono nella superficialità, meritevoli di un’attenzione cui dedichiamo, se va davvero alla grande, una trentina di secondi.
Neanche il regalo di un manifesto a ricordare qual è il dovere di qualsiasi cittadino della Repubblica. Eppure sarebbe bastato sfogliare la mirabile descrizione della depressione americana che ne fece Steinbeck con le parole affidate al protagonista del meraviglioso “Furore”. Per sfuggire ai rigori della legge, Tom Joad salutò la vecchia madre dicendole“… io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto… dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame… dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno… sarò negli urli di quelli che si ribellano… e nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito…”.
Non è forse un grande manifesto politico? non è forse ciò che bisognerebbe promettere e fare?
Leggi l'articolo originale su TPI.it