Novanta morti: uomini, donne, bambini, marines. Corpi smembrati dall’esplosivo e macelleria integralista sulla folla dell’aeroporto. Ma stavolta nessuno potrà dire: è accaduto, perché era inevitabile. Nessuno può dire: è stata una fatalità.
Al contrario piuttosto, è stata una conseguenza prevedibile e attesa. Questa strage contro inermi in fila, contro folle di disperati che inseguono una speranza di libertà bussando alle porte del ponte aereo che conduce in Occidente, questo tiro a segno su donne, bambini e civili senza protezione, non è figlia del caso, né di un imprevisto.
È la logica conseguenza dello spettacolo di questi giorni, è una strage figlia di una strategia dissennata, degli accordi più folli che l’America abbia mai negoziato nella sua storia. Gli accordi presi dagli uomini di Donald Trump a Doha, con i capi talebani.
Questa strage ricorda, per la sua cruenza e per la natura dei suoi bersagli, quella del mercato di Sarajevo durante la guerra di Jugoslavia. È una strage contro civili, ma non è solo il frutto del gesto dissennato di un kamikaze.
È il prodotto di una strategia comunicativa: è un attentato chirurgico che ha un obiettivo ben preciso, seminare il terrore, e un bersaglio evidente e facilmente intuibile: ovvero tutti coloro che vogliono scappare dallo scannatoio di Kabul.
È una strage che segue il più antico adagio terroristico: colpirne uno per educarne cento. Ora a due presidenti americani, e ai loro deboli, titubanti e imbelli alleati, che si sono fatti scavalcare dagli eventi, bisognerebbe chiedere – insieme con questi morti – il conto degli ultimi mesi di follia: mettere fine a venti anni di guerra con una ritirata precipitosa e vile che dura lo spazio di poche ore, non curarsi di predisporre un futuro per tutti coloro che sono rimasti indietro, consegnare armi e basi agli integralisti che si diceva di voler combattere in un supremo conflitto di civiltà, la scelta di non predisporre un piano di evacuazione protetto, quella di farsi circondare in un’area, la zona dell’aeroporto, non difendibile dal punto di vista militare e strategico. Scegliere di trasformare i civili in bersagli, accettare condizioni inique e suicide pur di tagliare gli ormeggi e andare via senza doversi caricare di responsabilità e di costi.
Il kamikaze arriva, dunque, solo perché qualcuno gli ha spianato la strada, perché qualcuno gli ha indicato un bersaglio, gli ha fornito uno scopo: è stato folle negoziare con i talebani, folle non curarsi delle conseguenze, folle produrre 300mila potenziali profughi sapendo che in questo contesto sarebbe stato già difficile esfiltrarne 10mila.
È crudele infliggere un esodo biblico a coloro che adesso hanno solo una via per arrivare in Occidente. Fuggire a piedi dal paese-scannatoio.
Pochi lo sanno, ma, dopo i 58mila afghani che saranno trasportati dagli americani, e dopo gli 8600 presi in carico dai britannici, il più grande numero di rimpatriati sono quelli (3.741, per essere esatti) che costituiscono la quota italiana.
Non siamo turisti in quel paese: siamo anche noi bersagli. E lo sono tutti coloro che hanno lavorato con noi, per noi, che si sono fidati di noi. Lo sono tutti, dai bambini che abbiamo portato nelle scuole modello del distretto di Herat, alle donne che abbiamo incoraggiato a partecipare al neonato festival del cinema femminile.
Erano giustamente – impegni come quelli – il fiore all’occhiello della missione italiana: ma oggi quegli elenchi di nomi, sono diventati liste di prescrizione retroattive.
Ecco perché la macelleria afghana, esattamente come la strage del mercato di Sarajevo, sono eccidi che hanno l’ambizione di diventare messaggi simbolici: non puntano a colpire solo le vittime dirette della mattanza.
È una lezione di ferocia al mondo, quella che i mozzaorecchie talebani e i loro alleati di Al Qaida vogliono darci, è un ammonimento per i profughi: non ci sono le porte del paradiso per tutti, per chi attende fuori dall‘aeroporto, da oggi, c’è solo un biglietto del cimitero.
Ma il vero sottotesto della strage è ancora più tragico. Dopo aver negoziato con gli americani ogni cosa, adesso i talebani fanno l’ultimo regalo agli eserciti in fuga: si prendono loro loro l’onere di sigillare le sbarre del paese-carcere. Non si perde tempo. Non si gioca più ai buoni e ai cattivi. Si fa cadere la mannaia sui disarmati. Si spiega che il nuovo confine è tracciato e che nessuno deve pensare di superarlo. Rien ne va plus.